Abbiamo scambiato quattro chiacchiare con il Professor Damiano Felini dell'Università di Parma e curatore del nuovo volume di Ludologica, Videogame Education. Studi e percorsi di formazione (Gennaio 2012). Autore di numerosi libri di media education, tra cui Pedagogia dei media. Questioni, percorsi e sviluppi (La scuola, 2010) e Media education tra organizzazione e fantasia. Esperienze creative in Italia, Austria e Germania (Centro Studi Erickson, 2011, insieme a Weyland Beate), Felini promuove da anni un uso consapevole ed efficace della "video game education", intesa come pratica pedagogica che "considera i videogiochi come degli oggetti culturali sui quali si può insegnare qualcosa".
Matteo BIttanti: Cosa s'intende, esattamente, per "video game education"? Che differenza c'è rispetto all'uso didattico del videogame in ambiente scolastico e formativo?
Damiano Felini: La differenza, in realtà, è molto intuitiva: da un lato, l'uso didattico dei videogiochi – che oggi va così di moda, almeno nelle parole degli esperti – è l'utilizzo dei videogiochi per insegnare un certo contenuto disciplinare. Per esempio, insegno la storia usando Civilization, o altri software specificamente educational. Dall'altro lato, invece, la video game education, costola della più nota media education, considera i videogiochi come degli oggetti culturali sui quali si può insegnare qualcosa; e questo, non in termini professionalizzanti, cioè per formare i futuri designer o programmisti di software videoludici, ma come insegnamento rivolto a tutti, considerato il fatto che i videogiochi, e più in generale i media, sono oggi parte del nostro mondo, e non possiamo viverci se non lo conosciamo.
Su questo principio, applicato appunto ai videogiochi, si può dubitare: davvero c'è bisogno di insegnare ai ragazzi a giocare ai videogiochi? Ma la questione è che i ragazzi sanno le tecniche per vincere le partite, ma non sempre sanno cosa c'è dietro un videogioco; non sempre sanno coglierne i particolari per comprendere il modo attraverso cui si produce il divertimento; non sempre sanno fruire dei videogiochi con senso critico.
Ecco, è su questo che la video game education incentra i suoi obiettivi.
Matteo BIttanti: Ci racconti la genesi del volume?
Damiano Felini: Il volume è frutto di quasi tre anni di lavoro, portato avanti da un'équipe di quasi dieci persone. Abbiamo cominciato a ragionare su questi temi e, parallelamente, a compiere alcune sperimentazioni nelle scuole, nei centri di aggregazione giovanile, in università, nei corsi di formazione per insegnanti e educatori e in molte serate rivolte ai genitori di bambini e adolescenti.
Questa attività è stata l'occasione per chiarire le idee e, soprattutto, per mettere a punto il "come si fa" della video game education: è soprattutto questo, infatti, che ci mancava. E credo sia questo il contributo maggiore che il nostro libro cerca di dare.
Matteo Bittanti: Puoi descriverci sinteticamente lo stato della ricerca su pedagogia e videogame in Italia?
Damiano Felini: Non c'è forse molto da dire. Molti entusiasmi, credo, un po' di pubblicazioni "agit-prop" e poca seria ricerca scientifica. L'entusiasmo mi fa piacere ma, devo dire, a volte pecca di faciloneria, almeno in questo campo. Molti propongono di insegnare tutto portando a scuola i videogiochi, ma non si rendono conto che materialmente nelle scuole italiane, oggi, questo è assai difficile; ammesso che sia auspicabile. Ci sono, però, alcuni progetti interessanti: vedremo che sviluppo avranno.
Matteo BIttanti: L'analisi del video game è una pratica tutt'altro che semplice, eppure viene tradizionalmente equivocata con la mera "recensione" del prodotto: come superare l'impasse?
Damiano Felini: Mah, l'analisi "scientifica" del videogame è cosa assai complessa, e tu ne sei più esperto di me. A noi, ciò che premeva è l'analisi didattica del videogioco, ovvero creare un modello di analisi che fosse nello stesso tempo "profondo" e semplice da applicare in un contesto scolastico o extrascolastico, con un insegnante/educatore non necessariamente super-esperto di videogiochi. Per questo, abbiamo ragionato molto, soprattutto con l'aiuto di Max Andreoletti e Ivan Venturi: abbiamo elaborato una griglia, che presentiamo nel libro, che spero possa essere utile.
Matteo BIttanti: L'analisi si sofferma solo sugli aspetti grafici?
Damiano Felini: Il No, gli aspetti grafici sono importanti ma, in ottica educativa, ha senso lavorarci solo se si sposano con l'educazione estetica, la grande dimenticata dell'istruzione occidentale oggi. Su questa, che è una questione all'avanguardia, Angela Castelli credo proponga delle riflessioni interessanti. Inoltre, nel volume proviamo a ragionare sull'analisi degli aspetti narratologici e di contenuto: qui penso soprattutto al contributo di Alessia Rosa, che ha sperimentato dei percorsi nella scuola media sui valori e gli stereotipi presenti nei video game, nella consapevolezza che i valori dei videogiochi sono i valori che tutta una società esprime. Per questo, abbiamo verificato che la video game education può efficacemente collegarsi alla riflessione su temi morali e, quindi, ai compiti dell'educazione alla cittadinanza e dello sviluppo del senso critico.
Matteo BIttanti: Le vostre sperimentazioni hanno toccato solo l'infanzia e l'adolescenza?
Damiano Felini: No, due contributi, stesi da Michele Aglieri, Giulio Tosone e Anna Ragosta, sono dedicati anche al mondo degli adulti. Per fare video game education, infatti, bisogna formare gli insegnanti e gli educatori. E i genitori, visto che poi i ragazzi usano i videogiochi soprattutto a casa.
LINK: La scheda del volume
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