In occasione della pubblicazione del volume Oltre il gioco. Critica della ludicizzazione urbana a cura di Matteo Bittanti ed Emanuela Zilio, pubblichiamo di seguito l'introduzione.
INTRODUZIONE
Matteo Bittanti
Mauro Ceolin, “Gamification” dalla serie “ContemporaryEmblems 2006/2015”, disegno a mano libera con penna ottica, 2015. Courtesy www.rgbproject.com
“La libertà è la tensione che esiste
tra il gioco della creatività umana
e l’imposizione delle regole.” (1)
(David Graeber)
Nell’importante saggio “Public Space in a Private Time”, l’artista e architetto americano Vito Acconci (1990) preconizza l’avvento della ludicizzazione, dei big data e della sorveglianza pervasiva che contraddistingue tanto l’era digitale quanto l’urbanistica contemporanea:
Lo spazio pubblico, nell'era elettronica, è uno spazio sfuggente. Lo spazio pubblico non è lo spazio cittadino, ma la città stessa. Non ha nodi, ma vie di circolazione; non ha edifici e piazze, bensì strade e ponti. (...) Non c'è tempo per parlare: non c’è bisogno di parlare perché la radio che ci portiamo appresso ci fornisce tutte le informazioni che possono servirci. Non c’è alcuna necessità di dare vita a un rapporto personale perché possiamo relazionarci all’infinito con la voce della radio, con le immagini delle persone riflesse nelle vetrine e visibili sui manifesti pubblicitari. Non c'è tempo per fermarsi un secondo e interagire con un essere umano, perché una relazione personale finirebbe per negare tutte le altre entità che sfioriamo, corpi sempre diversi che si succedono lungo la strada. (...) Trasformando lo spazio concreto in spazio astratto, trasformando lo spazio in tempo, l’era elettronica assume il completo controllo, sottraendolo dalle nostre mani e ponendole in quelle di un altro, Dio, o Magia, o Società o Governo o comunque lo vogliamo chiamare. Una singola persona ha accesso a tutte le informazioni e la città stessa diventa autosufficiente. (pp. 911-914)
Se sostituiamo a “radio” il termine “smartphone” e “tecnologia” a “Dio” le considerazioni di Acconci acquistano un’indiscutible forza predittiva. In una fase storica caratterizzata dalla falsa intimità dei social media (2), dalla subordinazione di ogni cosa alle leggi del Libero Mercato, dall’affermazione dello Spettacolo in tutte le sue più tossiche manifestazioni e dalla progressiva eliminazione della sfera pubblica, la ludicizzazione assume connotati sinistri, perfino inquietanti. Essa consiste nella progettazione ed applicazione di sistemi di gratificazione ed approcci giocosi per motivare, incentivare e premiare simbolicamente i soggetti coinvolti in un’attività non necessariamente ludica. Prevede la misurazione, quantificazione e convalida degli aspetti quantificabili delle prestazioni di un individuo, ignorando completamente le componenti qualitative che hanno contribuito a tale esperienza.
Forma mentis del regime neoliberista - “la logica di gestione dell’individuo che dissemina i valori e le metriche mercantili in ogni sfera dell’esistenza e che configura l’orizzonte umano in termini puramente economici” (Wendy Brown, 2015, p. 12) - la ludicizzazione promette autonomia, emancipazione, divertimento e piena realizzazione del sé attraverso attività divertenti e coinvolgenti, ma de facto riduce il soggetto a mero vettore dell’ideologia dominante. Una delle principali evangeliste, Jane McGonigal (2011, 2015), sostiene che il gioco cancella ogni distinzione tra lavoro e tempo libero, riscattando l’individuo, rendendolo autonomo, creativo e partecipativo. In realtà, questo meccanismo altamente burocratizzato (3) finisce per accentuare la condizione subordinata del soggetto, asservendolo a un sistema tecnocratico fondato sui principi della quantificazione, della classificazione, della competizione, dell’”efficienza” e del profitto, regolato da benchmark e best practices. Nei regimi neoliberisti, l'individuo è ridotto a capitale umano (Gary Becker, 1964) da re-investire continuamente in attività competitive che generano gratificazioni puramente simboliche. In questo contesto, la ludicizzazione è una sorta di lubrificante che dietro alle pretese socializzanti, quantifica e valorizza attività un tempo considerate indipendenti dalla sfera economica. Com'è noto, nel giro di qualche decennio, il neoliberismo ha strumentalizzato ogni sfera dell’esistenza umana, trasformandola in un gioco perverso: dall’educazione al fitness, dalle relazioni sociali all’alimentazione, ogni pratica oggi è dominata da un imperativo agonistico che impone al soggetto di “ottimizzarsi”, massimizzando le proprie risorse temporali, cognitive, ed economiche al fine di ottenere risultati quantificabili, dimostrabili e condivisibili attraverso i canali dell’auto-promozione, social media in primis. Diventare imprenditori di se stessi in un contesto segnato dal darwinismo sociale, dalle più stridenti disuguaglianze e dalle costanti fluttuazioni del mercato, è diventato normativo, perfino desiderabile. In questo contesto, la ludicizzazione non ha altro scopo se non rendere appetibile, eccitante e divertente lo stato delle cose. Gramsci direbbe che la sua funzione è puramente egemonica. La ludicizzazione gioca il giocatore, come aveva intuito l’Hans-Georg Gadamer (2004) di Verità e metodo:
L’autentico soggetto del gioco non è il giocatore ma il gioco stesso. È il gioco che ha in sua balia il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco. Il gioco come tale non lascia più sussistere per nessuno l’identità di chi gioca. Tutti domandano solo più che cosa è il gioco, che cosa esso significa. I giocatori non sono più; ciò che è, è solo ciò che da essi è giocato. (p. 137)
Il re-branding etimologico del gioco in ludicizzazione è stato stimolato dalla presentazione TED di Jane McGonigal, Gaming Can Make A Better World (2010) e dai libri La realtà in gioco. Come i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo (2011) e SuperBetter. A Revolutionary Approach to Getting Stronger, Happier, Braver and More Resilient - Powered by the Science of Game (2015). Nei suoi interventi, McGonigal sostiene che i “videogiochi possono salvare il mondo” a condizione che quella categoria di soggetti a rischio formata dai giocatori lasci perdere cose come FIFA, Call of Duty e World of Warcraft, per dedicarsi invece ai prodotti creati dalla designer di Berkeley, California. La teoria di McGonigal presuppone che la prassi videoludica sia di per sé inutile, perfino dannosa, nella misura in cui non produca reali conseguenze e risultati concreti. In altre parole, McGonigal attribuisce valore al giocare solo quando sia in grado di generare gratificazioni estrinseche, rinnegando per tanto le teorie di autori come Johan Huizinga (1949) e Roger Caillois (1958) che fanno del disinteresse un prerequisito essenziale. Ne consegue che McGonigal nega qualsiasi valore estetico, morale e intellettuale al gioco: quest’ultimo è infatti concepito come strumento per ottenere qualcos’altro: perdere peso, smettere di fumare, "salvare il mondo" etc. Ma sostenere che i giochi non generano forme di gratificazione intrinseca è assurdo quanto affermare che un romanzo o un film sono inutili nella misura in cui la loro fruizione non produca ritorni immediati, quantificabili e misurabili. La svalutazione del medium videoludico nonché la sua simultanea strumentalizzazione non deve sorprendere se consideriamo che la designer americana è impegnata da anni nella progettazione di campagne di marketing “giocose”. Si pensi a I Love Bees, un alternate reality game (ARG) (4) sviluppato dall’azienda californiana 42 Entertainment nell’ambito di un'operazione di marketing virale che ha accompagnato la pubblicazione dello sparatutto in soggettiva Halo 2 (Bungie/Microsoft, 2004). Commissionato da Microsoft, I Love Bees è de facto una campagna pubblicitaria che sfrutta l’attività ludica generata dai partecipanti per scopi puramente commerciali. Nel ruolo di burattinaia, McGonigal ha progettato le missioni ambientate nel “mondo reale” che hanno influenzato e plasmato le dinamiche organizzative dei pupazzi-giocatori. Nel 2005, McGonigal ha sviluppato un secondo gioco “urbano”, Tombstone Hold 'Em, che altro non è se non una campagna di marketing per promuovere il controverso videogame Gun (Activision). In questo caso, gruppi di giocatori si sono riuniti in cimiteri per improvvisare sfide a poker usando lapidi invece delle carte. Queste iniziative pseudo-ludiche confermano l’attualità dell’avvertimento di Gadamer: sono i giocatori ad essere giocati nella misura in cui l’agenzia di pubbliche relazioni che produce l’esperienza ARG li vende al committente di turno (Microsoft, Activision, McDonald’s etc.).
Questa peculiare perversione non è sfuggita a studiosi e giornalisti. Per esempio, Steven Poole (2012) ha definito la ludicizzazione come “la versione post-moderna e infantile delle teorie consolatrici dei filosofi Stoici”, mentre secondo Heather Chaplin (2011) si tratta di “una forma di manipolazione tipicamente utilizzata da regimi repressivi e autoritari”. Prosaicamente, Ian Bogost (2011) ha definito la gamification "una cazzata". Una delle critiche più penetranti porta la firma dello studioso tedesco Sebastian Deterding (2010) che nell’avvincente presentazione intitolata “Pawned. Gamification and Its Discontents” ha spiegato che l’applicazione di ricompense estrinseche all’attività ludica è, nel migliore dei casi, contro-producente e, nel peggiore, pericoloso. Il lato oscuro degli incentivi esterni è stato sviscerato dal game designer Chris Hacker (2010) nell’intervento “Achievements Considered Harmful?” (Trofei considerati pericolosi?) e, prima ancora, da Alfie Kohn nel seminale Punished by Rewards: The Trouble with Gold Stars, Incentive Plans, A’s, Praise, and Other Bribes, pubblicato nel 1993. Kohn dimostra come la raccolta punti, trofei, medaglie e altre forme di ricompensa simbolica tenda a disincentivare i partecipanti anziché stimolarli. Questa tesi è stata sviluppata dalla game designer britannica Margaret Robertson (2012). In “Can’t Play, Won’t Play” (Non posso giocare, non voglio giocare), Robertson fa notare che c’è ben poco di ludico nella ludicizzazione. Si dovrebbe semmai parlare di “puntificazione”, ovvero di sistemi di quantificazione delle azioni eseguite durante il gioco. Infine, il teorico danese Jesper Juul (2011) ha suggerito che la crisi economica del 2008 sarebbe stata causata dall’”applicazione di principi di design ludici al lavoro che incentivava i dipendenti a perseguire gratificazioni immediate, a breve termine, sottovalutando le conseguenze del loro operato sulla società nel suo complesso”. Quando si parla di gamification, giocoso non è mai sinonimo di gioioso.
Il tema della ludicizzazione ha acquistato un’importanza cruciale nel dibattito sul futuro della città, un dibattito dominato da concetti quali smart city, comunicazione mobile, big data e quantificazione del sé - temi che ignorano completamente le vere problematiche, tra cui l’incremento delle disuguaglianze sociali, la costante sorveglianza, la mercificazione della res publica. Bernardo Secchi (2013) riassume così la situazione:
La crisi dei primi anni del ventunesimo secolo – una crisi lentamente maturata in tre decenni di disuguaglianze crescenti e destinata probabilmente a durare e ad incidere sulle economie e le società occidentali più di quanto si voglia credere – coincide, come altre nel passato, con l’emergere di un’importante questione urbana, dal carattere multi dimensionale; un carattere che si stenta a voler riconoscere. Al centro delle diverse dimensioni di questa crisi stanno le disuguaglianze: la cupidigia dei ricchi, il progressivo smantellamento del welfare state e il degrado della qualità della vita dei gruppi sociali più poveri. Le disuguaglianze sociali non sono forse il portato, bensì una causa non secondaria della crisi. (p. 13)
La città è stata a lungo immaginata come spazio dell’integrazione sociale e culturale. Non è più così. Oggi, la città è lo spazio dell’esclusione. Nel contesto dell’imperante retorica tecno-determinista la ludicizzazione è descritta come un fenomeno innovativo, destinato a trasformare positivamente profondamente il nostro rapporto con il tessuto urbano. L’high tech dei privilegiati e i processi di individualizzazione che informano l’Ideologia Californiana, promosso da testate come WIRED e riproposto ad nauseam nel corso di conferenze, festival ed eventi come TED Talk, hanno contribuito ad attribuire alla ludicizzazione una parvenza di novità. I media hanno successivamente consacrato il fenomeno, celebrando in modo isterico l’ennesimo trend proveniente dalla terra promessa altrimenti nota come Silicon Valley. Infine, com’era lecito attendersi, il dibattito ha incentivato la produzione di una corposa riflessione accademica (5), di cui questo volume fa parte.
Tuttavia, la ludicizzazione ha ben poco di originale o innovativo. Non a caso, uno dei temi portanti di Oltre il gioco - discusso nella prima delle tre parti che lo compongono - è che si tratta di una pratica storicamente consolidata. Gli autori Mathias Fuchs e Mark J. Nelson la riconducono rispettivamente all’Europa del Diciottesimo secolo, all’Unione Sovietica di Lenin e agli Stati Uniti dell’era reaganiana. Allo stesso tempo, è difficile negare che la ludicizzazione esemplifichi la filosofia neoliberalista di quella monocultura sbeffeggiata in serie televisive come Silicon Valley di Mike Judge e Black Mirror di Charlie Brooker. Quello che ci preme sottolineare è che le differenti mitopoiesi non si escludono a vicenda. Semmai si completano.
L’inquadramento storiografico e teorico è seguito da quattro studi di caso condotti da ricercatori italiani e americani: Ganriele Ferri, Paolo Ruffino, David Moran, Jack Moshell, Mauro Salvador, Alberto Vanolo e Stephanie Vie. Le applicazioni sul campo - gli spazi urbani europei e americani - rivelano il potenziale, ma anche i limiti intrinseci della ludicizzazione. Per quanto differenti, questi contributi sollecitano una riflessione sul destino della sfera pubblica nell’era del solipsismo tecnologico, mettendoci in guardia sui rischi associati alpotenziale pedagogico del divertimento elettronico (Franchi). La trasformazione degli spazi pubblici in privati ad opera di corporation e multinazionali è un cancro che si sta espandendo in tutta Europa, Inghilterra in primis, come ci ricorda lo scrittore e docente Will Self, per il quale oggi l'esperienza urbana è stata ridotta alla "metrica del tempo e del denaro" e alla "monetizzazione degli spazi". Si tratta di spazi privati che si presentano come pubblici, ma sono in realtà soggetti a una differente regolamentazione: in questi non-luoghi è vietato scattare fotografie (come nei centri commerciali), aggregarsi, e, ovviamente, protestare contro lo status quo. Per mascherare l'ascesa dell'urbanistica corporate - a Londra come a Milano - si ricorre spesso all'escamotage del ludico per "addolcire la pillola". Aziende di comunicazione ed "esperti di gamification" sono arruolati per organizzare "giochi urbani", sponsorizzati da gruppi finanziari. L'attività proto-ludica "spontanea" è una simulazione di democrazia, accesso e libertà d'azione. Il vero obiettivo è la totale privatizzazione e la monetizzazione della dimensione urbana.
Nella terza e ultima sezione (“Modi di giocare & tipi di giocatori”), Ava Kofman, McKenzie Wark e Matteo Bittanti discutono possibili alternative alla ludicizzazione, focalizzandosi su progetti di natura artistica, sperimentale e d’avanguardia. Sul piano ideologico ed estetico, queste pratiche alternative si pongono in aperto contrasto con quello che un tempo avremmo definito “marketing avanzato”, come del resto chiarisce Dragona nel suo saggio sulle forme di resistenza e offuscamento. In un precedente saggio intitolato "Re-conquering the gamified city. An old battle on a new urban ground" (2011), la studiosa greca notava con immane dispiacere che la ludicizzazione - in quanto forma disciplinare - è una pratica reazionaria:
Che triste e deludente cancellazione del pensiero ludico rivoluzionario del passato quella della New Babylon proposta dalla ludicizzazione! La stessa tecnologia che poteva, doveva liberarci diventa uno strumento di controllo e di oppressione. La città immaginata dall'Homo Ludens - libera, anarchica, spontanea, avventurosa, utopica - è stata sconfessata dai gadget e dalle interfacce dell'Homo Faber che offrono solo una (falsa) promessa di emancipazione.
In una fase storica segnata dalla crescente militarizzazione degli spazi urbani (6), dalla privatizzazione del pubblico e dalla rampante gentrification delle città del Primo Mondo, la ludicizzazione è spesso usata come specchio per le allodole: si tratta di un anestetico giocoso che fornisce una simbolica (nel senso di virtuale, fittizia) autonomia e indipendenza a soggetti che vengono continuamente sfruttati da un sistema basato sull’espropriazione degli spazi, sul dis-impegno politico ed ecologico e sulla mercificazione dell’esistenza. Sfruttando l'artificio ludico, la ludicizzazione maschera tanto le premesse ideologiche quanto le conseguenze piu nefaste della logica neoliberista, illustrate in modo chiaro e puntuale da David Harvey (1998, 2010, 2013), Mike Davis e Daniel Bertrand Monk (2013). Il protagonismo offerto dalla ludicizzazione è aleatorio: essa non produce altro che acquiescenza politica. La sbandierata trasformazione ludica del mondo beneficia solo i mandanti, ossia le multinazionali oltre ovviamente ai consulenti del neo-divertimento, gli evangelisti e i media guru. Parafrasando il titolo di un recente lavoro del geografo marxista Harvey, quello di cui abbiamo disperatamente bisogno oggi non sono città ludicizzate, bensì città ribelli, giocatori sgamati, e, soprattutto, nuove regole. Per ripensare il rapporto tra urbe e ludus sarebbe utile recuperare le suggestioni di Henry Lefebvre, che nel seminale Il diritto alla città (1968) indica proprio nella dimensione ludica la chiave per rivitalizzare quegli spazi fisici e meta-fisici che il neocapitalismo ha svuotato di senso. Secondo il filosofo francese, occorre subordinare al gioco “la culturalità e la scientificità” (p. 127), invece di strumentalizzare l’attività giocosa o, peggio, ridurla a una mera forma di consumo.
Il neocapitalismo [...] non mette più insieme le persone e le cose, ma le informazioni e le conoscenze. Le registra sotto forma di simultaneità. [Per converso] La centralità ludica comporta numerose conseguenze: restituisce il senso dell’opera fornito dall’arte e dalla filosofia; conferisce al tempo priorità sullo spazio, senza dimenticare, tuttavia, che il tempo si iscrive e scrive in uno spazio; pone l’appropriazione al di sopra del dominio. [...] Potremmo dire che si avrà gioco tra le parti dell’insieme sociale - plasticità - solo nella misura in cui il gioco si proclama valore supremo, eminentemente serio anche se non serioso, superandoli, riunendoli, l’uso e lo scambio. (pp. 127, 128)
Ergo: se il tempo della città elettronica è stato assorbito dalla frenesia del Capitale (Acconci), solo il gioco autentico può ristabilire ritmi umani (Lefebvre).
Prima di cominciare la partita, è opportuno fare un paio di precisazioni. Oltre il gioco propone una ridefinizione critica del fenomeno della gamification urbana attraverso i contributi di studiosi, game designer e artisti internazionali. Il termine “critico” non va inteso in senso necessariamente negativo. Infatti, una critica che voglia definirsi tale esamina, soppesa e valuta un fenomeno sociale e culturale da molteplici angolazioni. In un’era dominata dalla political correctness (7) e dalla passiva accettazione dell’ennesimo gadget “Made in Cupertino” ma in realtà prodotto nelle fabbriche cinesi grazie allo sfruttamento disumano della manodopera locale, gli inviti alla cautela producono spesso reazioni stizzite che culminano con la gogna pubblica. Per questo motivo, è meglio non dare nulla per scontato.
La seconda precisazione è di natura terminologica. Nel testo, il termine inglese gamification è stato tradotto con ludicizzazione, mentre ludification è stato reso con ludificazione. Com’è noto, la lingua inglese distingue tra game e play, traducibile grossomodo con gioco (sostantivo) e giocare (verbo). Il termine game/gioco presenta caratteristiche riconducibli al latino ludus. Nel seminale Gli uomini e i giochi, Caillois (1958) distingue tra due pratiche giocose: paidia e ludus. La prima è caratterizzata dall’assenza di regole e si fonda sulla “potenza primaria d’improvvisazione e spensieratezza”, il che la rende un’attività “turbolenta” e imprevedibile. Il ludus, per converso, è contraddistinto dalla presenza di regole definite, dalla competizione esplicita, dal calcolo, dalla padronanza del sé e da esiti non ambigui. Data la natura fortemente regolamentata e iper-competitiva della gamification - per lo meno nelle definizioni di McGonigal et al. (8), essa presenta più affinità con il ludus rispetto alla paidia, il che spiega la contiguità tra gamification e ludicizzazione. Siamo consapevoli che si tratta di un neologismo orrido, ma critiche analoghe andrebbero rivolte anche all’originale sostantivo gamification (e il corrispettivo verbo to gamify, gamificare), ahinoi assai diffuso in Italia grazie al tam tam giornalistico e dei social media (9). L’uso dell’inglese all'interno della lingua italiana non è solo sintomatico di pigrizia mentale, ma anche di un’inutile esterofilia (Jobs Act?). Laddove possibile, abbiamo cercato di limitare i danni.
Concludo con i dovuti ringraziamenti. In primo luogo, vorrei esprimere la mia gratitudine alla co-curatrice del volume, Emanuela Zilio, che ha lanciato la proposta di dedicare un numero speciale della rivista ScreenCity sul tema della ludicizzazione e che ha svolto un grande lavoro propedeutico (10); i recensori anonimi che hanno valutato i saggi, fornendo in molti casi preziosi consigli ai rispettivi autori e ai curatori; Gianni Canova, co-curatore della collana Ludologica e viaggiatore instancabile tra città invisibili e cinematografiche; Marzio Zanantoni che ha accolto questo progetto nella serie; Natalino Bittanti, che ha fornito preziosi suggerimenti durante la stesura del volume; Fabio Guarnaccia, che ha dedicato un numero monografico della rivista LINK. Idee per la televisione alla gamification intitolato Insert Coin/Game Over; Bhaskar Sunkara, il direttore di Jacobin che ha acconsentito alla traduzione e ripubblicazione del saggio di Ava Kofman in questo volume; il collettivo Random Parts di Oakland e gli attivisti impegnati nelle battaglie contro la rampante gentrification di San Francisco e dell’East Bay, ma anche di Londra, Milano etc.; a McKenzie Wark che ha accolto con entusiasmo l’invito a partecipare a Oltre il gioco, e a tutti gli autori che hanno reso possibile questo progetto.
Vi auguro buon divertimento, avvisandovi tuttavia che non sono previste medaglie, certificati o spillette a lettura completata.
Matteo Bittanti
Milano, 11 settembre 2015
Note
1. David Graeber. The Utopia of Rules. On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy. Brooklyn, New York: Melville Publishing, 2015, p. 198.
2. Che confonde l’interazione personale con la simulazione dello scambio comunicativo e con l’autopromozione continua. A questo proposito, cfr. Sherry Turkle, Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Codice Edizioni, Torino, 2013; Sherry Turkle, Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age, London: Penguin Press, 2015; Alice E. Marwick, Status Update. Celebrity, Publicity, and Branding in the Social Media Age, Yale, Yale University Press, 2013.
3. Come sostiene Graeber (2015), “La burocrazia è l’acqua in cui nuotiamo” (p. 2). Un possibile antidoto alla neo-burocratizzazione della vita quotidiana (“che oggi informa ogni aspetto della nostra esistenza”, p. 4), prodotta dalla rampante privatizzazione e dalla deregulation neoliberista, è il gioco spontaneo. Non la ludicizzazione, bensì il suo opposto: un’attività giocosa libera da regole, premi e competizioni. Graber scrive che “Ogni burocrazia crea giochi, ma si tratta di giochi tutt’altro che divertenti da giocare” (p. 186). Infatti, “Non c’è nulla che la burocrazia tema più del gioco libero” (p. 192).
4. Un alternate reality game è un gioco che collega internet e altri media digitali al mondo reale. Solitamente si dispiega attraverso numerosi strumenti web (blog, e-mail, minisiti) e telefonici (sms, app) e presenta al giocatore una storia misteriosa con indizi che puntano a precise locazioni (per esempio a monumenti oppure oggetti nascosti in determinate località). Assai diffuso negli Stati Uniti, gli ARG sono usati essenzialmente come veicoli promozionali per un prodotto o un servizio.
5. Tra i contributi più interessanti spiccano The Gameful World, l'enciclopedico volume curato da Sebastian Deterding e Steffen P. Walz (2015) e l’eccellente antologia di saggi Rethinking Gamification (2014), curata da Mathias Fuchs, Sonia Fizek, Paolo Ruffino e Niklas Shrape dell’Università di Leuphana. Rispetto a questi lavori dal taglio omnicomprensivo, Oltre il gioco si focalizza sul rapporto tra ludicizzazione e spazi urbani.
6. Cfr. il notevole contributo di Stephen Graham, Cities Under Siege. The New Military Urbanism, Verso, London, 2011.
7. Per esempio, “Questa app cambierà il mondo!”, oppure l’uso delle immagini di Martin Luther King o Gandhi per pubblicizzare un computer che insegna a “pensare in modo differente” et similia.
8. La bibliografia sulla gamification è troppo ampia per essere elencata in nota. Ci limitiamo ad osservare che la maggior parte dei contributi sono riconducibili al marketing, alla logica manageriale, alla letteratura “ispirazionale” e alla pubblicità. I titoli, in questo senso, sono esemplari: Gabe Zichermann, The Gamification Revolution: How Leaders Leverage Game Mechanics to Crush the Competition, New York, McGraw-Hill, 2014; Lewis Harrison, Gamification for Business, Carlsbad, California: Motivational Press, 2014; Shea Therese, Gamification: Using Gaming Technology for Achieving Goals, New York: Rosen Classroom; Rajat Paharia, Loyalty 3.0: How to Revolutionize Customer and Employee Engagement with Big Data and Gamification, New York: McGraw-Hill Education, 2013.
9. Kellee Santiago, fondatrice di thatgamecompany (flOw, Journey) e ora responsabile di Google Play Games, ha recentemente coniato il termine "artification" (artificazione?) in riferimenti allo statuto culturale dei videogiochi. Credevo che non fosse possibile fare peggio di gamification, ma chiaramente mi sbagliavo.
10. I saggi di Mathias Fuchs, Giuseppe Enrico Franchi, Alberto Vanolo, Mauro Salvador & Gabriele Ferri. Paolo Ruffino, David Thomas Moran, Stephanie Vie, J. Michael Moshell sono stati originariamente concepiti per il numero monografico di ScreenCity. Gli altri sono stati selezionati da Matteo Bittanti.
Opere citate
Autori Vari. Insert Coin/Game Over. LINK. Idee per la televisione, no. 12, novembre, 2012. URL: http://www.link.mediaset.it/magazine/magazine_32.shtml
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Becker, Gary. Human Capital, New York: Columbia University Press. 1964 (in italiano, Il capitale umano, Bari, Laterza, 2008).
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Dragona, Athanasia Daphne. "Re-conquering the gamified city. An old battle on a new urban ground", ISEA 2011, International Symposium of Electronic Arts, Sabanci University, 2011. URL. http://isea2011.sabanciuniv.edu/paper/re-conquering-gamified-city-old-battle-new-urban-ground
Fuchs Mathias, Fizek, Sonia, Ruffino, Paolo & Schrape Niklas. Rethinking Gamification. Luneburg: meson press. 2014.
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