Consiglio caldamente l'intervista ad Antonio Brusa, storico e specialista in Didattica della Storia e curatore dell'eccellente sito Historia Ludens da parte di Pino Bruno (Tom's Hardware/La Repubblica) pubblicata il 26 ottobre 2016. Si parla di Battlefield 1 e della capacità dei videogiochi di simulare la storia.
Un aspetto che trovo particolarmente significativo - che Brusa tuttavia non affronta - riguarda la natura dello spazio incriminato. Per chi non la sapesse, Sebastiano Favero, il presidente dell'Associazione degli Alpini, l'assessore regionale Sergio Berlato e Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, hanno aspramente contestato la decisione di Electronic Arts di includere una riproduzione virtuale del Monte Grappa all'interno di Battlefield 1. Sottolineo virtuale: il videogioco propone una replica digitale, non la cosa reale. Tuttavia, dalle critiche si evince una sorprendente confusione ontologica tra il Monte Grappa inteso come luogo fisico e il Monte Grappa inteso come mappa videoludica. La mappa, lo ricordiamo, non è il territorio. Per definizione, una mappa non è un luogo sacro. Una mappa non è nemmeno un luogo. La mappa è un insieme di segni, una semplificazione di una realtà. Berlato lamenta una "mancanza di rispetto per il territorio", lasciando intendere che il Monte Grappa videoludico è una copia degenerata dello spazio atomico. Favero parla di "gente che spara e uccide sul Monte Grappa", senza tuttavia far notare che le uccisioni sono puramente simboliche, paragonabili a quelle del gioco dei soldatini. Zaia opera una distinzione tra "dolore vero" e "dolore virtuale", senza tuttavia fornire gli strumenti necessari per una patemica del multimediale. In breve: il rapporto tra Storia e videogiochi richiederebbe un'analisi attenta ma le dichiarazioni dei politici rivelano una conoscenza molto superficiale del medium. Ma non tutto il male vien per nuocere: questi corto circuiti interpretativi sollecitano riflessioni urgenti. Occorre infatti ripensare la natura degli spazi e degli luoghi reali e virtuali, temi che affrontiamo in un volume di prossima pubblicazione intitolato Le geografie dei videogiochi.
In questa sede, riporto le dichiarazioni di Favero e Berlato, pubblicate sul Corriere del Veneto il 21 ottobre scorso:
«Ovvio che sono contrario ad una cosa del genere, non ci sembra affatto il caso di trasformare un luogo sacro in un videogioco. Il Monte Grappa dovrebbe essere ricordato per il sacrificio di chi ha combattuto ed è morto lassù, dall’una e dall’altra parte, e non quindi essere riportato d’attualità in questo modo, con gente che spara e uccide, con sangue ovunque. Temi delicati, come quello della guerra, specie di questi tempi, vanno affrontati in maniera diversa e non in modi devianti come questo». (Sebastiano Favero, presidente dell'Associazione degli Alpini)
«Un vero e proprio sacrilegio, perché solo chi non ama e non conosce il Grappa può ideare un videogioco di questo tipo, che è una mancanza di rispetto nei confronti di un territorio che ha visto morire decine di migliaia di giovani per difendere la patria» (Sergio Berlato, Assessore Regionale)
Riporto di seguito le dichiarazioni del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia rilasciate a Vicenza Today il 23 ottobre 2016:
“E’ estremamente irrispettoso utilizzare per un videogioco quello che è stato nella realtà un teatro di morte e di sofferenza, dove rimasero uccisi quasi 23 mila uomini. Umanità e compassione, valori per me imprescindibili, sono così calpestati. E’ una scelta da condannare fermamente, perché è come se avessero situato un videogame in uno dei nostri cimiteri, in un luogo della memoria dove migliaia di giovani vite vennero tragicamente interrotte. Mi auguro che questa operazione vergognosa non faccia da apripista per ambientare altri videogiochi in luoghi e situazioni dove c’è stato dolore vero, non virtuale, come al Bataclan, come a Nizza o come il disastro del Vajont: sarebbe una bestemmia!” (Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto)
Sulle pagine di Repubblica, Antonio Brusa risponde:
Pino Bruno: Giusto. Ma su un luogo di memoria sarebbe forse più corretto ambientare un gioco di ruolo sulla guerra, o di strategia? O un gioco che faccia capire la sofferenza nelle trincee? Così non ci sarebbe scandalo. Lo sparatutto invece, secondo molti (non secondo noi), è un gioco che esalta e spettacolarizza la carneficina...
Antonio Brusa: L'elettronica ha fatto il miracolo di moltiplicare all'infinito il divertimento del gioco dei soldatini. È magnifico, per un gioco. Perché il gioco deve piacere, anche se di guerra. Proprio questo fa scandalo. Come se giocare alla guerra fosse "esaltare la guerra" o "imparare a fare la guerra". Ma questa reazione è una semplice mancanza di cultura, che (ancora una volta) impressiona parecchio se manifestata da rappresentanti istituzionali. Un nome di quelli che, per restare in tema, è "sacro": Umberto Eco. Si trovava a Monaco, durante le Olimpiadi, quelle dell'attentato in cui furono assassinati degli atleti israeliani. Va in un negozio per comprare un gioco di guerra per un bambino. La commessa è inorridita, e lui le spiega, con calma, che giocare è "di per sé" essere contro la guerra. Quando fai la guerra, il tuo nemico lo uccidi. Ma quando giochi, lui deve vivere. Se no, contro chi giochi, la prossima volta? La guerra per gioco è l'unica guerra in cui non si muore mai. E concludeva, dicendo di stare attenti piuttosto a chi compra il Monopoli. Perché, magari il bambino ti diventa un truce sfruttatore di inquilini (non sapeva, ai grandi succede talvolta, che anche il Monopoli fu inventato per insegnare quanto è terribile il capitalismo).
Per restare in tema, il 16 ottobre 2016, Historia Ludens ha ospitato un ottimo pezzo sul rapporto tra storia e simulazioni videoludiche firmato da Raffaele Guazzone. Intitolato "Quando il gioco si fa duro", l'articolo porta in primo piano i nodi centrali di una questione tutt'altro che banale: è raro leggere, in Italia, contributi così accurati su argomenti solitamente fraintesi come quello del potenziale didattico del videogioco.
Tuttavia, Brusa e Guazzone non citano Venti Mesi, un recente progetto di We Are Muesli che attesta come sia possibile affrontare episodi della storia italiana in modo intelligente attraverso il medium videoludico. Venti Mesi è la dimostrazione che il game design italiano non ha davvero nulla da invidiare al resto del mondo. I designer Claudia e Matteo ne avevano parlato in un'avvincente presentazione nel corso di Artcade, la scorsa estate.
Infine, a tutti gli interessati consiglio l'antologia di Damiano Felini, Video Game Education, la monografia di Dario Compagno su Assassin's Creed e della raccolta di saggi su Civilization, edita da Costa & Nolan nella collana videoludica.