Di seguito, la presentazione e il saggio presentati al convegno FENOMENOLOGIA DI DYLAN DOG presso l'Università IULM di Milano il 23 novembre 2016.
CONVEGNO
PRESENTAZIONE
SAGGIO
Ripensare la narrazione transmediale: Dylan Dog e i videogiochi dell’incubo
Matteo Bittanti
Abstract
Questo saggio esamina il potenziale ermeneutico cosiccome i limiti della nozione di transmedia storytelling (narrazione transmediale) formulata dal teorico americano Henry Jenkins nel 2003 e successivamente sviluppata attraverso saggi, articoli ed interventi. Nella seconda parte, il concetto di transmedia storytelling è usato come filtro concettuale per esaminare le produzioni videoludiche ispirate a Dylan Dog prodotte a oggi (2016). Nella parte conclusiva, si delineano due possibili scenari relativi all’interazione tra fumetto e videogioco alla luce delle mutate condizioni tecnologiche, culturali e sociali.
1. Breve critica del transmedia storytelling
“La differenza tra ora e allora,” ha spiegato Howard Hoffman, l’executive di Lucasfilm responsabile di quello
che è diventato l’Universo Espanso di Star Wars, “è che non sapevamo quello che avevamo.” (Frank Rose, 2013)
La nozione di transmedia storytelling (narrazione transmediale) è stata formulata dallo studioso americano Henry Jenkins nel 2003 sulle pagine di Technology Review, il mensile del Massachusetts Institute of Technology, ed è stata successivamente sviluppata attraverso numerosi saggi, articoli, conferenze e libri, tra cui Cultura convergente (2007a). Nell’articolo “Transmedia Storytelling 101” pubblicato sul blog Confessions of an AcaFan, Jenkins (2007b) propone una definizione considerata oggi canonica:
La narrazione transmediale rappresenta un processo attraverso il quale gli elementi integrali di un racconto sono dispersi sistematicamente su differenti canali di distribuzione con l’obiettivo di creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ciascun medium fornisce il proprio contributo peculiare allo sviluppo della storia. Per esempio, all’interno del franchise di The Matrix, frammenti di informazioni sono distribuiti attraverso tre film, una serie di cortometraggi animati, due raccolte di storie a fumetti e numerosi videogiochi. Non esiste un’unica sorgente o ur-text che comprende l’universo di The Matrix nella sua totalità. (Jenkins, 2007b) (1)
Per Jenkins, la narrazione transmediale è “l’arte della creazione di mondi”: essa prevede lo sviluppo di un complesso universo finzionale che si estrinseca attraverso una gamma diversificata di artefatti culturali, piattaforme mediali e modalità di fruizione. La narrazione transmediale costituisce “un sistema sufficientemente flessibile da consentire a molteplici storie di emergere e svilupparsi, ma, al tempo stesso, sufficientemente compatto da favorire la loro coesistenza, affinché ogni racconto possa essere riconducibile a un unicum coerente” (2007b). In altre parole, essa prevede la diffusione di racconti su piattaforme multiple da parte di autori decentralizzati, dispersi e relativamente autonomi sul piano creativo ma uniti da un contesto narrativo comune.
Il primo aspetto che emerge da questa definizione è che si fonda su un paradosso: Jenkins sostiene che per “creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata” è indispensabile “disperdere sistematicamente” gli “elementi integrali di un racconto attraverso differenti canali di distribuzione” (ibidem). Detto altrimenti, l’obiettivo della narrazione transmediale non consiste tanto nel “creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata” quanto nell’espandere le possibilità di profitto del produttore attraverso la moltiplicazione dell’offerta di contenuti. Infatti, secondo Jenkins, “Un franchise transmediale di successo attrae una audience più vasta proponendo contenuti in modi differenti nei differenti media. Se ogni opera offre nuove esperienze, un mercato crossover estenderà il guadagno potenziale all’interno di ciascun medium” (ibidem). Jenkins sollecita i creatori a sparpagliare frammenti narrativi su media differenti per incoraggiare i fruitori ad esplorare il più ampio ecosistema mediale che forma l’universo narrativo in questione. Questa “esplorazione” prevede il consumo di una grande quantità di artefatti culturali appartenenti alla medesima proprietà intellettuale, ovvero a ciò che nel linguaggio del marketing viene definito franchise. In caso contrario, la conoscenza dell’universo narrativo da parte del fruitore sarà incompleta, lacunosa, insufficiente. A prescindere dalla legittimità o meno di tale obiettivo, l’efficacia del transmedia storytelling sul piano squisitamente narrativo è tutt’altro che chiara (2).
Occorre inoltre precisare che il concetto di narrazione transmediale è strettamente connesso a quello di cultura partecipativa (participatory culture) che prevede un consumo attivo, “creativo” degli artefatti culturali da parte degli utenti. Con l’aggettivo creativo, Jenkins si riferisce alle pratiche di appropriazione, reinvenzione (remix, remake, ricircolo) e ridistribuzione dei suddetti artefatti prodotti, nella maggior parte dei casi, dalle grandi corporation dell’intrattenimento. Detto altrimenti, oggi non è più sufficiente consumare un prodotto culturale: occorre lavorare attivamente per trasformarlo, alterarlo e condividerlo sotto una nuova veste.
Nonostante le inerenti aporie, la nozione di narrazione transmediale - come quella correlata di ludicizzazione (3) - ha conosciuto un’enorme popolarità. Nell’ultimo decennio, il transmedia storytelling ha trasceso il contesto accademico ed è stato applicato a una vasta gamma di pratiche che spaziano dall’apprendimento al marketing - del quale, appunto, è una ramificazione - attraverso una serie di iniziative coordinate dallo stesso Jenkins. Questo successo è riconducibile a molteplici fattori. In primis, si tratta di una formalizzazione concettuale ex-post delle strategie di marketing avanzato tipiche dell’industria culturale statunitense, ivi considerate come normative e paradigmatiche. Jenkins (2011) ha ammesso che il transmedia è, in primo luogo, una tecnica promozionale che mira a una moltiplicazione dell’offerta attraverso una diversificazione superficiale dei contenuti. L’enfasi è sulla presentazione più che sull’ideazione: non a caso, i primi esperimenti sono stati sviluppati dai reparti marketing delle grandi corporation dell’intrattenimento e dell’elettronica di consumo. Si potrebbe affermare che la storia di questo concetto è anche la storia della sistematica co-optazione delle iniziative dei fans e degli appassionati attraverso tecniche promozionali che lo stesso Jenkins ha illustrato nel volume collettivo Spreadable Media. (4)
Si noti che già negli anni Quaranta, la Scuola di Francoforte - allora in esilio volontario nelle lande americane - aveva proposto un’analisi approfondita dei comparti cinematografici, musicali e letterari, sottolineandone la loro monoliticità. I francofortesi hanno coniato l’espressione industria culturale per definire una realtà proto-transmediale caratterizzata da un’apparente moltiplicazione dei contenuti, dalla loro crescente omogeneità e dall’imperativo della massimizzazione dei profitti (5). Come scrivono Adorno e Horkheimer (1966) nelle pagine del sempre attuale La dialettica dell’illuminismo (6):
La civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza. Il film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è armonizzato al suo interno e tutti lo sono fra loro. (p. 126)
L’unità spregiudicata dell'industria culturale attesta quella che si viene formando nella vita politica. Le distinzioni enfaticamente ribadite, come quella tra i film di tipo A e B, o quella fra i racconti pubblicati in settimanali di diverse categorie di prezzo, più che essere fondate sulla realtà e derivare da essa, servono a classificare e organizzare i consumatori, e a tenerli più saldamente in pugno. Per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate e diffuse artificialmente. L'approvvigionamento del pubblico con una gerarchia di qualità prodotte in serie serve solo alla quantificazione più completa e senza lacune. (p. 129)
Questo processo lavorativo integra tutti gli elementi della produzione, dalla prima idea del romanzo che tiene già d’occhio la possibilità del film fino all’ultimo effetto sonoro. È il trionfo del capitale investito. (p. 130)
L'industria culturale può vantarsi di avere realizzato con estrema energia, e di avere eretto a principio, la trasposizione - che era stata spesso, prima di essa, goffa e maldestra - dell’arte nella sfera del consumo, di avere liberato l’amusement delle sue ingenuità più petulanti e fastidiose e di avere migliorato la confezione delle merci. (pp. 142-143)
Jenkins e i teorici francofortesi discutono della medesima realtà, ma i loro giudizi si collocano agli antipodi. Adorno e Horkheimer sostengono che l’industria culturale costruisce parvenze di originalità e superficiali distinzioni con l’obiettivo di giustificare la necessità di incentivare nuovi consumi nonché creare l’illusione della libertà di scelta. Grazie ai meccanismi della riproduzione in serie - scrivono Adorno e Horkheimer - l’industria culturale produce differenze di valore dei prodotti che non corrispondono a differenze oggettive, bensì a una parata di cliché che vengono diversamente arrangiati a seconda dello scopo. Da parte sua, il transmedia storytelling non è tanto una concettualizzazione quanto una legittimazione dello sviluppo e della distribuzione di prodotti culturali dal più ampio appeal commerciale.
Nell’articolo “Seven Myths About Transmedia Storytelling” pubblicato su Fast Company (2011), Jenkins ha risposto alle numerose critiche che hanno accompagnato la pubblicazione di Cultura convergente, chiarendo alcuni aspetti “equivoci” della narrazione transmediale. Lo studioso ha precisato che essa presenta caratteristiche qualitativamente differenti rispetto al semplice processo di adattamento di un testo da un contesto mediale all’altro. Detto altrimenti, la mera trasposizione cinematografica di un romanzo non può essere considerata un esempio di narrazione transmediale. Quest’ultima prevede lo sviluppo di un unico, macro-racconto che si articola attraverso piattaforme differenti, cosicché, “ciascun medium possa contribuire nel modo più efficace - i fumetti possono illustrare una premessa narrativa o retroscena (7), i giochi consentono di esplorare il mondo finzionale, mentre la serie televisiva offre una narrazione episodica” (Jenkins, 2011). Si noti che questa affermazione (8) stabilisce una precisa gerarchia mediale: Jenkins attribuisce al videogioco una funzione essenzialmente architettonica (parla infatti di mera “esplorazione” del mondo finzionale, ivi concepito come spazio navigabile), al fumetto un ruolo contestuale - in quanto si limita a fornire i retroscena di una storia già definita - laddove cinema e televisione hanno il compito di sviluppare il racconto principale.
Jenkins ha inoltre precisato che il transmedia storytelling non presenta necessariamente caratteristiche ludiche, per quanto molti progetti - specie all’inizio - abbiano sfruttato l’artificio degli Alternate Reality Games (9) per coinvolgere i consumatori in sofisticate campagne di marketing mascherate da attività ludiche libere e pseudo-spontanee. Senza alcuna ironia, Jenkins (2011) scrive:
Le proprietà transmediali combinano attrattori culturali (che catalizzano un’audience altamente coinvolta) e degli attivatori culturali (che assegnano a tale audience qualcosa da fare).
Jenkins ha inoltre ammesso che la maggior parte dei progetti transmediali sono stati sviluppati per i cosiddetti early adopters - utenti maschi di età compresa tra i 18-27 anni e dotati di “risorse temporali ed economiche” significative. Questo segmento demografico spiega la popolarità di progetti transmediali nell’ambito di generi quali la fantascienza, l’horror e il fantasy. Nonostante la dichiarata applicabilità universale del concetto, il ricercatore americano ammette che il transmedia presenta dei limiti. Esso rappresenterebbe infatti “un’opportunità creativa, non un requisito” (ibidem). Jenkins riconosce che un grande numero di racconti possono essere concepiti, sviluppati, distribuiti e consumati attraverso un unico medium: non è sempre necessario - né consigliabile - spalmare la narrazione su molteplici piattaforme. Nello specifico:
Il transmedia rappresenta una strategia per raccontare storie caratterizzate da un set di personaggi particolarmente ampio, in un mondo dettagliato e dove esiste una premessa narrativa o mitologia che può estendersi al di là degli specifici capitoli cinematografici o televisivi in cui è presentata. (ibid.)
Il problema fondamentale è che, alla prova dei fatti, la “tesi” di Jenkins si dimostra debole e sostanzialmente indistinguibile dal licensing tradizionale (10). Detto altrimenti, l’espressione transmedia storytelling non è che la semplice rinominazione di processi e tecniche di marketing consolidate e già discusse negli anni Quaranta dai teorici francofortesi. Il termine transmedia - che negli ultimi tredici anni è stato più volte riformulato, emendato e revisionato dallo stesso Jenkins (cfr. 2007, 2009, 2011) - è oggi così vago, generico e indeterminato da aver smarrito qualsivoglia forza ermeneutica. Infine, i vari esempi di transmedia storytelling proposti da Jenkins (2011) nei suoi libri, articoli e presentazioni, si sono dimostrati, spesso fallimentari - tanto a livello commerciale quanto concettuale (per esempio Majestic, Flash Forward, The Event) - e dunque marginali, oppure privi dei requisiti essenziali che lo studioso americano attribuisce al fenomeno (per esempio, Lost, Heroes, Ghost Whisperer e 24). Lo stesso The Matrix, che Jenkins (2007b) considera il paradigma della narrazione transmediale, è inficiato da una grossolana sopravvalutazione dei testi ancillari (fumetti, videogiochi e serie animate) rispetto al film. Nell’immaginario collettivo, The Matrix è - in modo pressoché esclusivo - un’espressione cinematografica (11).
Non deve sorprendere che le teorie di Jenkins siano state al centro di un intenso dibattito accademico che ne ha messo in luce le debolezze intrinseche. Tra i numerosi critici spiccano teorici del cinema, come David Bordwell (2009) e studiosi di letteratura come Marie-Louise Ryan (2013). Nel 2011, la pubblicazione accademica Cultural Studies ha dedicato un numero speciale contra transmedia intitolato “Rethinking “Convergence/Culture”. L’antologia di saggi curata da James Hay e Nick Couldry presenta una critica sistematica alla nozione di “cultura convergente” di cui la narrazione transmediale è una delle caratteristiche più significative. Tra le altre cose, gli autori hanno accusato Jenkins di attribuire un’importanza esagerata al ruolo “partecipativo”(12) degli utenti nei processi creativi; di sottovalutare - in modo deliberato o meno - l’intrinseca logica corporate e commerciale sottesa alla nozione di “convergenza culturale”; di dimostrare un ottimismo ingenuo - per non dire confuso - circa il potenziale democratico dei processi di convergenza in atto (13) e di ignorare il modus operandi dei conglomerati mass-mediali nonché il peso delle forze in campo, chiaramente squilibrato verso i detentori delle proprietà intellettuali rispetto ai singoli consumatori. Le logiche commerciali sottese all’industria culturale si scontrano frontalmente con la presunta libertà di espressione che Jenkins attribuisce ai fans (14): convenientemente, lo studioso evita di menzionare che le pratiche creative degli utenti sono spesso co-optate dalle corporation dell’intrattenimento oppure scoraggiate per mezzo di intimidazioni e manovre legali. Nel migliore dei casi, gli utenti sono ridotti al rango di freelance che generano profitti per le aziende senza ricevere una remunerazione economica per i propri sforzi (15). Nel peggiore, sono criminali che, avendo violato i diritti di copyright dell’azienda, meritano una sanzione.
Preso atto che la nozione di narrazione transmediale formulata da Jenkins presenta numerosi aporie, contraddizioni ed incongruenze, è altrimenti impossibile ignorare la sua popolarità: si tratta, infatti, del proverbiale elefante nella stanza. Anche in Italia, una filiera di pubblicazioni, eventi tematici ed interventi degli evangelisti di turno hanno contribuito a promuovere questo elusivo concetto tra gli operatori della comunicazione, presentandolo come panacea di tutti i mali che affliggono l’industria del marketing nell’era di Google e dei social media. Anziché operare una critica puramente concettuale, in questa sede utilizzo il filtro opaco della nozione di transmedialità per esaminare uno studio di caso, Dylan Dog. In particolare, mi concentro sui videogiochi tratti dall’immaginario narrativo concepito da Tiziano Sclavi.
2. Gli incubi videoludici di Dylan Dog
A tutt’oggi, sono stati prodotti ventidue videogiochi ispirati all’investigatore dell’incubo. Ciò che accomuna queste produzioni multimediali è un approccio che potremmo definire pionieristico, amatoriale, a tratti dilettantistico, decisamente lontano dalle logiche corporate che caratterizzano le produzioni transmediali statunitensi, nelle quali la sinergia tra i comparti editoriali, videoludici, e cinematografici è contraddistinta da una rigorosa pianificazione, un’esecuzione impeccabile e una promozione a tappeto (16). In secondo luogo, i videogiochi dylaniati sottintendono una concezione del medium relativamente ingenua, ivi considerato ancillare, subordinato, secondario, opzionale, marginale e/o inferiore al fumetto. Sviluppati in modo relativamente autonomo da studi di produzione italiani oggi non più attivi, questi videogiochi sono, nella maggior parte dei casi, mere riproposizioni elettroniche di albi a fumetti esistenti. In questo contesto, la logica dominante è quella dell’adattamento, una strategia lontana dal transmedia storytelling descritto da Jenkins. A sottolineare la simbiosi (sudditanza?) tra videogioco e fumetto, il canale distributivo privilegiato è l’edicola anziché il negozio specializzato. Non esiste, in altre parole, la volontà - o forse la capacità - di espandere l’universo narrativo su molteplici media. All’invenzione, si preferisce la reiterazione: si tratta, semplicemente, di riproporre personaggi, estetiche, situazioni e racconti noti su un altro medium, senza tuttavia sfruttarne le peculiari caratteristiche, ovvero quello che Clement Greenberg (1966) ha definito “lo specifico”. Da questo sorprendente disinteresse nei confronti del videogioco-in-quanto-videogioco si evince un fraintendimento delle reali possibilità espressive, culturali e commerciali del mezzo.
Il primo videogioco “dylaniato” s’intitola Dylan Dog: Le notti della luna piena. Sviluppato, pubblicato e distribuito nel 1988 da Systems Editoriale (17), la casa editrice lombarda della rivista specializzata Commodore Computer Club, è in realtà, due prodotti differenti: il summenzionato Dylan Dog: Le notti della luna piena e Dylan Dog e il castello delle illusioni. Il primo è un esempio di narrazione interattiva (interactive fiction) (18): si tratta dell’adattamento dell’omonima avventura a fumetti accompagnata dalla riproduzione elettronica di alcune vignette di Giuseppe Montanari ed Ernesto Grassani (19). Il secondo è un action game programmato da Valerio Ferri e Michele Maggi, Dylan Dog: Le notti della luna piena è una rimediazione (20) del fumetto attraverso il videogioco che sfrutta il formato del librogame. L’interazione è molto limitata: l’utente può effettuare delle azioni selezionandole da un menu di opzioni predefinite. Per esempio:
Due fotogrammi di Dylan Dog, le notti della luna piena (Foto: Courtesy of MobyGames)
Sviluppato dal duo Ferri-Maggi, Dylan Dog e il castello delle illusioni è un semplice videogioco bidimensionale prodotto per mezzo del programma di sviluppo SEUCK (acronimo di Shoot'Em Up Construction Kit) (22). In questo action game, il giocatore controlla Dylan Dog all’interno di un castello infestato da fantasmi, vampiri, scheletri, pipistrelli e zombie. L’obiettivo consiste nel salvare Groucho da morte sicura. Armato di rivoltella, Dylan Dog deve farsi strada nel maniero, evitando il tocco mortale degli avversari. Tanto il design quanto il gameplay sono dichiaratamente amatoriali.
In un’intervista rilasciata a Roberto Nicoletti di Ready64, il fondatore di Systems Editoriale, Michele di Pisa, ha descritto così la collaborazione con Bonelli Editore:
[Michele di Pisa] I rapporti con Bonelli furono curati da Michele Maggi. Ma non fu una cosa complicata: l’idea che si realizzassero delle adventure con i loro personaggi stuzzicava il Bonelli il quale ci diede un’autorizzazione scritta senza peraltro richiedere alcun compenso. Ricordo anche che fu particolarmente collaborativo nel fornirci il materiale grafico necessario e nel segnalare l’iniziativa ai suoi lettori.
Due fotogrammi di Dylan Dog: Il castello delle illusioni (Foto: Courtesy of MobyGames).
Negli anni successivi, è stata invece Simulmondo - una software house bolognese fondata da Francesco Carlà nel 1987 e attiva fino al 1999 - ad occuparsi della traduzione videoludica dei fumetti Bonelli, per iniziativa dello stesso Carlà (Gentili, 1997). Tra il 1992 e il 1993, Simulmondo pubblica diciannove videogiochi tratti dalle avventure dell’investigatore dell’occulto. In un’intervista rilasciata a Giovanni Gentili nel 1997, Carlà ha descritto così la collaborazione con Sergio Bonelli Editore:
[Giovanni Gentili] Penso che l’idea della produzione di quei giochi partì dalla Simulmondo.
[Francesco Carlà] Sì, da me... alla fine del 1990.
Si ricorda con chi ebbe contatto alla Sergio Bonelli Editore? Alla produzione parteciparono degli autori bonelli [sic]?
[Francesco Carlà] Decio Canzio, diventato poi mio amico... persona molto perbene e simpatica... e Tiziano Sclavi, altrettanto simpatico e con cui ho avuto un bel rapporto anche via lettera…
Il primo adattamento è Dylan Dog: Gli uccisori nel 1992. Basato sul quinto albo della serie, intitolato appunto Gli uccisori (febbraio 1987), il videogioco è stato distribuito nei negozi specializzati italiani ed europei (in particolare Spagna, Francia, Polonia) per gli home computer allora più diffusi: Commodore 64, Commodore Amiga e PC MS-DOS. Si noti che la confezione originale conteneva anche un breve albo inedito intitolato Il ritorno degli uccisori scritto da Sclavi e disegnato da Montanari e Grassani. Il fumetto illustra il retroscena del videogioco e corrisponde a ciò che in gergo viene definita back-story. Nello specifico, Dylan Dog è ossessionato da incubi ricorrenti che presentano forti affinità con le vicende descritte nell’albo Gli uccisori incentrato sulla misteriosa trasformazione di ordinari individui in famelici assassini. Il nostro riceve un invito a una festa organizzata nel castello di un elusivo magnate, Evil, un esperto di arti oniriche. Una volta raggiunta la destinazione, tuttavia, Dylan Dog s’imbatte in soggetti assatanati che si massacrano reciprocamente. L’improvvisa follia assassina sembra essere stata causata dalla sostanza che Evil ha sciolto nelle bevande degli ospiti. Risvegliatosi dall’ennesimo incubo, Dylan Dog comprende che per porre fine al delirio onirico deve cimentarsi in una sfida con/nel videogioco che si svolge, non a caso, nel castello di Evil. Nel corso dell’avventura, Dylan Dog è aiutato da alcuni ospiti che – non avendo sorseggiato il letale cocktail – sono scampati alla diabolica metamorfosi. Il climax prevede un duello con il malvagio padrone di casa. Carlà (1991/1992) ha definito “felice” il sodalizio tra fumetto e videogioco. Nelle pagine introduttive del Ritorno degli uccisori, scrive:
Un matrimonio felice: il numero uno dei videogames (immodestamente) con il numero uno dei fumetti (modestia a parte); un matrimonio interattivo, rapido, efficace. Per dare a voi, amici nostri, il massimo che ci sia in giro: un videogame italiano fino al midollo, curato fino allo spasimo, amato tantissimo da noi e speriamo da voi.
Programmato da Nicola Ferioli, disegnato da Ivan Venturi e accompagnato dalla colonna sonora di Stefano Palmonari, Dylan Dog: Gli uccisori proietta l’investigatore all’interno di uno spazio a schermate multiple. La visuale è laterale: in ogni schermata è riprodotta una stanza o due stanze su due livelli. Tanto l’estetica quanto il gameplay sono ispirate a un classico per Commodore 64, Mission Impossible (Epyx, 1984). Dylan può correre, saltare, abbassarsi, trasportare oggetti utili, sferrare pugni, parare i colpi, e usare vari tipi di armi, anche se inizialmente può contare solo su una rivoltella e una manciata di proiettili. Il labirinto di stanze, collegate tra loro da porte, scale e corridoi, comprende saloni antichi nonché moderni laboratori e locazioni segrete. Negli spazi del castello proliferano trappole e trabocchetti. L’interfaccia è molto semplice. Le informazioni chiave sono comunicate da icone: il tempo a disposizione è visualizzato dal movimento ascendente o calante della luna mentre l’energia vitale di Dylan Dog da una lapide che emerge lentamente dal terreno. Una volta risolti alcuni alcuni enigmi chiave, lo schermo mostra delle sequenze animate che forniscono indizi per il proseguo dell’avventura (23).
Due fotogrammi di Dylan Dog, gli uccisori (Foto: Courtesy of Ready64)
Il secondo videogioco pubblicato da Simulmondo è Dylan Dog: attraverso lo specchio (1992) per le piattaforme Commodore Amiga e PC MS-DOS. Si tratta di un’avventura punta-e-clicca contraddistinta da alcune fasi action. Sviluppato da Davide Possamai e Gian Battista Aicardi (soggetto), Marco Favaretto (programmazione) e Anthony Aicardi (grafica e animazioni), Massimo Perini e Gianluca Gaiba (suono delle versioni Amiga e PC rispettivamente), Dylan Dog: attraverso lo specchio è stato distribuito nei negozi specializzati al pari del precedente.
Due fotogrammi di Dylan Dog: attraverso lo specchio (Foto: Courtesy of MobyGames)
La situazione cambia considerevolmente per quanto concerne i successivi videogiochi di Dylan Dog sia in termini di contenuti sia di distribuzione. Viene infatti abbandonata la rete di negozi specializzati per l’edicola. A livello produttivo, il modus operandi acquista tempistiche accelerate, tipiche di un contesto squisitamente industriale: l’obiettivo dichiarato di Simulmondo era di produrre rapidamente un gran numero di fumetti interattivi per sfruttare la popolarità degli albi Bonelli. Questo spiega la scelta di adottare un modello di pubblicazione a cadenza mensile. Tra il 1992 e il 1993, Simulmondo pubblica diciassette capitoli: La Regina delle Tenebre, Ritorno al Crepuscolo, Storia di Nessuno, Ombre, La Mummia, Maelstrom, Gente che Scompare, La Clessidra di Pietra, Il Male, I Vampiri, Il Marchio Rosso, Il Lungo Addio, I Killers Venuti dal Buio, Il Bosco degli Assassini, Inferni, Fantasmi e Il Cimitero Dimenticato. Platform con schermo a scomparsa (24) contraddistinti da elementi tipici delle avventure, questi videogiochi presentano un’interfaccia che si potrebbe definire essenziale (vedi, per es., Bizzoco, 2006). All’interno della confezione era incluso un albo illustrato di otto pagine. La copertina era di Angelo Stano.
I videogiochi prodotti da Simulmondo hanno riscosso un buon successo commerciale anche se i critici hanno lamentato una realizzazione tecnica spesso inadeguata, probabilmente riconducibile a tempi di produzione compressi: la periodicità mensile, infatti, non consentiva agli sviluppatori di testare efficacemente i prodotti né di investire maggiori risorse all’implementazione della meccanica e del comparto estetico. Per ammissione dello stesso Carlà, l’offerta prorompente ha rapidamente saturato il mercato. Nella summenzionata intervista a Gentili (1997), ha infatti dichiarato:
All’inizio il successo fu strepitoso, vendemmo quasi cinquantamila copie del primo numero di Dylan e 25.000 del primo di Tex. Poi si attestarono sulle 10.000 copie a numero... infine ci fu un calo fisiologico che mi convinse che il trend dei fumetti in game era calante, sia pure molto positivo per Simulmondo. (25) [...] Errori se ne fanno sempre… ma credo che se ce ne fu uno all’epoca fu quello della periodicità mensile mutuata da quella di Bonelli. Troppo frequente per la durata d’uso di un videogame, più lenta di quella di un fumetto... sarebbe stato meglio fare uscire una nuova avventura di un personaggio ogni due mesi o tre... e magari usare più personaggi… ma all’epoca non erano ancora popolari Nathan Never e gli altri (26) [...] ...noi abbiamo fatto molto: 2 games da negozio e 17 edicola per DD e uno da negozio e 13 edicola per TX sono uno sforzo enorme ed infatti saturò il mercato...sorriso..
Sul finire del decennio – gli anni Novanta – la produzione videoludica dylaniata passa a Rizzoli New Media. L’editore milanese pubblica Dylan Dog: Horror Luna Park (1999), un’avventura grafica per PC in terza persona con qualche elemento arcade e puzzle sviluppata da due studi multimediali di Genova, NewMediaAround e Bedroom Studio Entertainment. A differenza dei precedenti, Dylan Dog: Horror Luna Park è basato su un soggetto originale di Tiziano Sclavi. La storia è ambientata in un parco di divertimenti infernale, generato, ancora una volta, dalla psiche del protagonista e popolato da figure note del suo entourage, l’assistente Groucho, l’ispettore Bloch, nonché da personaggi meno noti come Marina, Morgana, Xabaras, Lady Trelkovsky, Hamlin e Lord Wells. Dylan Dog è doppiato da Mimmo Chianese, mentre Groucho da Alberto Carpanini. L’enfasi promozionale e comunicativa di Rizzoli New Media si concentra sull’aspetto autoriale anziché su quello videoludico: distribuito in edicola nella collana “I CD-ROM del Corriere della Sera”, Dylan Dog: Horror Luna Park viene presentato con la dicitura “storia inedita di TIZIANO SCLAVI”. Forse anche per questo motivo, l’interazione a schermo era molto limitata. I verdetti della critica sono stati per lo più negativi. Non sono stati prodotti ulteriori episodi. Si potrebbe affermare che, al pari di Dylan Dog e il castello delle illusioni, Dylan Dog: Horror Luna Park rappresenta un esempio di rimediazione (Bolter & Grusin, 2002), un fenomeno che prevede l’incorporazione di un medium (il fumetto) in un altro (il videogioco). Per usare un’espressione coniata da Marshall McLuhan, questa produzione ricorda la logica dello specchietto retrovisore: i contenuti di un nuovo medium (il videogioco) sono quelli del medium precedente (il fumetto). Detto altrimenti, anziché sfruttare le caratteristiche peculiari del primo, ci si è limitati a riproporre pedissequamente quelle del secondo. Più che un videogioco contraddistinto da elementi fumettistici, Dylan Dog: Horror Luna Park è un fumetto elettronico dalle ambizioni videoludiche.
Due fotogrammi di Dylan Dog: Horror Luna Park (Foto: Courtesy of MobyGames, Wikipedia)
L'immagine della confezione (Foto: eBay)
3. Possibili scenari
Sono passati poco meno di vent’anni dalla pubblicazione dell’ultimo videogioco ispirato alle avventure di Dylan Dog. Nel frattempo, l’intero panorama mediale è radicalmente cambiato grazie all’avvento di nuove tecnologie - dagli smartphone ai tablet - e alla diffusione di massa di internet e dei videogiochi.
Anche se Bonelli non sembra avere ambizioni transmediali - l’editore non ha mai fatto mistero di volersi concentrare in modo pressoché esclusivo sulle produzioni a fumetti - è legittimo domandarsi se esista la possibilità di avviare nuove iniziative videoludiche, magari attraverso collaborazioni con aziende italiane consolidate, emergenti o indipendenti oppure attraverso progetti di natura essenzialmente culturale. Di primaria importanza, al di là delle possibili sinergie industriali, è la concezione del videogioco all’interno di un’operazione transmediale: la formula dell’adattamento appare oggi inadeguata, se non anacronistica. È possibile ipotizzare altri scenari? Il Dylan Dog videoludico ha solo un passato oppure avrà un futuro?
In questa sede vorrei indicare due possibilità, riconducibili rispettivamente alla dimensione industriale ed artistica. Ci tengo a precisare che queste opzioni non si escludono reciprocamente ma, al contrario, possono coesistere in contesto transmediale capace di salvaguardare sia la visione autoriale promossa dall’azienda, sia le pratiche creative degli appassionati.
La prima opzione prevede una radicale ridefinizione dell’interazione tra fumetto e videogioco attraverso una collaborazione con una realtà produttiva di riconosciuto talento. Il modello di riferimento è la serie di videogiochi tratti dal fumetto The Walking Dead, che Bonelli potrebbe emulare, estendere ed implementare. Illustro di seguito alcune peculiarità di questo caso di studio.
Due fotogrammi di The Walking Dead, Telltale Games, 2013-2014
Avventura grafica in terza persona sviluppata dall’azienda californiana Telltale Games (28), The Walking Dead è composto da due “stagioni” formate da cinque episodi (“capitoli”) ciascuna (29), pubblicate rispettivamente nel 2012 e nel 2014 per computer, console e piattaforme portatili come smartphone e tablet (30). A differenza della maggior parte dei videogiochi tratti da Dylan Dog, The Walking Dead si svolge nel medesimo mondo finzionale concepito da Robert Kirkman nel 2003, ma si relaziona in modo tangenziale con il racconto principale (la serie a fumetti) e con gli altri adattamenti prodotti finora (la serie televisiva prodotta da AMC dal 2010 (31), ma anche le varie web-series). Come nel fumetto, anche il videogioco segue le avventure di un gruppo di sopravvissuti in fuga dai morti che camminano nello stato americano della Georgia. Si tratta, tuttavia, di personaggi inediti e originali, concepiti appositamente per il videogioco. La prima stagione ha come protagonista Lee Everett, un insegnante accusato di omicidio intenzionale, che si prende cura di una bambina di nome Clementine, proteggendola dagli zombie e da altre avversità, insieme ad un gruppo di umani in fuga. Nella seconda stagione, il giocatore assume il controllo della ragazza, costretta ad affrontare da sola pericoli di ogni tipo in seguito alla morte dell'uomo.
Il videogioco propone dunque una narrazione autonoma, ma integrata all’universo narrativo concepito da Kirkman: si svolge infatti in sincronia agli eventi presentati nel fumetto e nella serie TV (32). Pur condividendo uno stile grafico simile a quello del fumetto (Sulimma, 2015), i riferimenti alla serie illustrata sono sporadici e superficiali. Il videogioco è stato interamente sviluppato da Telltale Games in collaborazione con Skybound Entertainment mentre Kirkman ha svolto il ruolo di supervisore per assicurarsi che il risultato finale fosse in linea con il testo sorgente (il fumetto) (33).
The Walking Dead ha riscosso un enorme successo critico e commerciale a livello internazionale, aggiudicandosi oltre novanta riconoscimenti come gioco dell’anno dalle più importanti pubblicazioni del settore: si tratta di uno dei titoli più premiati della storia del medium. È inoltre considerato il catalizzatore del revival di un genere considerato moribondo: l'avventura grafica. Stando ai dati di vendita comunicati dallo sviluppatore, le due stagioni hanno totalizzato oltre ventotto milioni di copie a livello mondiale. Il merito va principalmente a una formula che enfatizza la dimensione narrativa, con particolare attenzione alla componente emotiva e morale, rispetto alla mera soluzione di enigmi. Grazie a una caratterizzazione dei personaggi particolarmente sofisticata e a una trama che si snoda dinamicamente sulla base delle scelte dei giocatori (34), il videogioco crea un’esperienza coinvolgente. Inoltre, pur essendo stato sviluppato per una fruizione individuale, The Walking Dead prevede un ingegnoso meccanismo di condivisione: le azioni effettuate dall’utente nel corso dell’avventura sono registrate automaticamente. Al termine di ogni episodio, il programma mostra al giocatore una tabella che mette a confronto le scelte compiute in relazione a quelle degli altri utenti. Il sistema registra inoltre molteplici traiettorie narrative e include un’opzione di “riavvolgimento” degli episodi per facilitare l’esplorazione di itinerari alternativi. In breve, le caratteristiche peculiari del medium videoludico - circuiti di feedback, interattività, temporalità malleabili, narrazione dinamica, fruizione collettiva (in modalità sincrona o asincrona) etc. - sono state sfruttate egregiamente dai game designer.
Si noti che i critici sono divisi sullo statuto di The Walking Dead. C’è chi lo considera un esempio paradigmatico di narrazione transmediale (35) (Sulimma, 2015; Ecenbarger, 2016) e chi, meno pomposamente, di intertestualità (36). Nella maggior parte dei casi, si parla di semplice produzione su licenza. Secondo David Jay Bolter e Maria Engberg, si tratta di “narrazione transmediale” debole (37). Gli fanno eco Benjamin Beil e Hanns Christian Schmidt (38) che portano in primo piano la “miopia” inerente alla nozione di transmedia formulata da Jenkins (2015, p. 83).
Al di là delle divergenze interpretative, quello che è chiaro è che anziché perseguire la strategia dell’adattamento e della rimediazione, Telltale Games ha creato un’opera autonoma nel contesto narrativo di The Walking Dead, sfruttando il potenziale narrativo della graphic novel di Kirkman. La formula della distribuzione episodica - che rispetta il modello seriale (39) del fumetto ma senza l’imposizione della cadenza mensile - è qui concepita come sviluppo organico di un macro-racconto. La possibilità di scaricare i vari capitoli direttamente da internet, aggirando reti distributive tradizionali (negozi, edicole), ha trasformato il gioco in un fenomeno culturale planetario, fruito simultaneamente da un pubblico eterogeneo accomunato dalla passione per il fumetto e/o la serie televisiva (40).
A prescindere dalle affinità tematiche - il genere horror in primis - The Walking Dead potrebbe rappresentare un modello vincente per una nuova generazione di videogiochi tratti da Dylan Dog, anche se ciò richiederebbe lo sviluppo di narrazioni che - pur essendo ambientate nel medesimo mondo finzionale - non avrebbero necessariamente come protagonista il celebre investigatore, bensì personaggi “minori”, per esempio, l’assistente Groucho (41), l’ispettore Bloch o il suo successore Tyron Carpenter, Xabaras, John Ghost, oppure altri concepiti ex novo, dagli autori Bonelli e/o dai game designer. La formula degli episodi auto-conclusivi sfruttata fino a oggi andrebbe abbandonata a favore di un macro-racconto che si sviluppa lungo un arco temporale di più ampio respiro. Sul piano estetico, si potrebbe prendere ispirazione dalla collana Dylan Dog COLOR FEST, che sperimenta soluzioni grafiche innovative, assai lontane da quello dell'albo mensile.
La seconda possibilità, più artistica, prevede invece la formula del concorso: l’editore potrebbe infatti bandire una competizione aperta studi di sviluppo indipendenti italiani e internazionali per la creazione di un’opera interattiva ispirata all’universo di Dylan Dog. Questo consentirebbe ad appassionati disseminati in tutto il mondo di re-interpretare in chiave ludo-artistica l’immaginario di Dylan Dog. Questo modello ha degli esempi illustri. Ne cito tre. Il primo è il Bosch Art Game (42), la competizione indetta nel 2012 dalla Jheronimus Bosch 500 Foundation per la realizzazione di un’opera interattiva ispirata alle opere del pittore olandese Hieronymus Bosch. Ad aggiudicarsi il primo premio sono stati Claudia Molinari e Matteo Pozzi in arte We Are Müesli. Il duo ha prodotto una visual novel interattiva di grande spessore, CAVE! CAVE! DEUS VIDET successivamente distribuita attraverso varie piattaforme. In tempi più recenti, La Triennale di Milano ha stanziato dei fondi per la realizzazione di un’app videoludica curata dal game designer Pietro Righi Riva, che include giochi d’artista creati dai più importanti team di sviluppo internazionali. Disponibile per dispositivi dotati di sistemi operativi iOS e Android, Triennale Game Collection è stata scaricata da oltre duecentomila utenti dall’introduzione la scorsa primavera, nell’ambito della XXI Esposizione Internazionale della Triennale. Design After Design. Infine, lo scorso marzo, il giovane politico americano e imprenditore Tim Hwang, ha lanciato The Power Broker: A Game Design Competition, una competizione aperta agli sviluppatori di giochi e videogiochi di tutto il mondo per produrre un’interpretazione ludica del celebre libro di Robert Caro, The Power Broker: Robert Moses and the Fall of New York (1974)(43), un ritratto di oltre mille e trecento pagine sul controverso urbanista che, tra gli anni Trenta e Cinquanta, ha cambiato il volto di New York. Tra i candidati spicca Good Authority, una sorta di anti-SimCity sviluppato dai game designer indipendenti Robert Yang ed Eddie Cameron (44).
Queste iniziative - Bosch Art Game, Triennale Game Collection, The Power Broker: A Game Design Competition - attestano che oggi il videogioco è riconosciuto per quello che è: un linguaggio universale che interagisce con le arti visive nel loro complesso, dalla pittura al design, dal cinema all’architettura, dalla saggistica all’urbanistica. La peculiare natura dei committenti - una fondazione nel primo caso, un museo nel secondo, un’organizzazione politica nel terzo - conferma che il mezzo ha ormai trasceso la dimensione del puro disimpegno: nel 2016, il videogioco è, prima di tutto, un’espressione culturale ed artistica.
Fotogramma di CAVE! CAVE! DEUS VIDET, di We Are Müesli, 2013.
Ignoro se l’editore Bonelli sia interessato ad ingaggiare un dialogo creativo e costruttivo con il videogioco svolgendo il ruolo di collaboratore (con un azienda) o committente (attraverso la formula del patronato). L’unica certezza è che il potenziale ludico di Dylan Dog è enorme. Si tratta di un potenziale a tutt’oggi largamente inespresso. Sono numerosi gli appassionati - in Italia come all’estero - che sarebbero entusiasti di sperimentare l’opera di Sclavi in una modalità autenticamente transmediale, per cui ogni piattaforma contribuisce efficacemente ad estendere, ampliare ed arricchire l’universo narrativo condiviso - secondo l’auspicio di Jenkins - anziché limitarsi a sfornare quelli che nel gergo del marketing vengono definiti tie-in e spin-off. Questo richiederebbe, nel primo caso, una pianificazione attenta e un coordinamento tra tutte le parti coinvolte (la casa editrice, lo studio di sviluppo, il publisher) in linea con le dinamiche creative del ventunesimo secolo. Una simile produzione dovrebbe ambire a una distribuzione internazionale anziché locale. Nel secondo, la volontà di mettersi in gioco e di accettare una sfida, abdicando al controllo totale della proprietà intellettuale per lasciare spazio alle sperimentazioni degli appassionati in chiave interattiva, digitale e artistica.
Chiudo citando un dettaglio che mi ha sempre colpito: il leit-motiv delle produzioni videoludiche dylaniate è l’incubo. Dal Castello delle illusioni fino a Horror Luna Park, la simulazione elettronica è perentoriamente concepita come una visione mostruosa, prodotta dall’inconscio nella fase di assopimento, una visione dalla quale Dylan Dog tenta disperatamente di fuggire. Non occorre essere degli psicanalisti per cogliere il sotteso messaggio: il sonno della ragione genera videogames. In quanto lettore e giocatore, auspico una nuova generazione di videogiochi onirici interpretati da Dylan Dog. Auspico cioè non più terrificanti sogni lucidi, ma coinvolgenti sogni ludici.
La pagina conclusiva di Il ritorno degli uccisori di Sclavi, Montanari e Grassani (1991-1992).
NOTE
1. La traduzione in italiano è del sottoscritto.
2. Carlos Scolari (2009) ha fatto notare che il concetto elaborato da Jenkins ha numerosi precursori, tra cui quello di intermedia concepito da Dick Higgins nel 1966.
3. Per ludicizzazione o gamification, s’intende l’applicazione di meccaniche ludiche a pratiche, processi e attività non-ludiche. Non a caso, una delle principali evangeliste, la californiana Jane McGonigal, lavora all’intersezione tra comunicazione, pubblicità e transmedia. Si potrebbe affermare che se la narrazione transmediale trasforma il marketing in una fiaba, la ludicizzazione lo rende un gioco. Entrambe le tecniche mirano a infantilizzare il pubblico di riferimento per renderlo più ricettivo ai messaggi e malleabile al consumo compulsivo. Per una critica ragionata del fenomeno, cfr. Matteo Bittanti & Emanuela Zilio (a cura di), Oltre il gioco. Critica della ludicizzazione urbana, Edizioni Unicopli, Milano, 2016.
4. Qui, spreadable - in italiano, spalmabile – è sinonimo di virale. Per Jenkins, la spreadability è la caratteristica che hanno alcuni testi mediali di essere particolarmente adatti a una diffusione massiva. La cultura digitale privilegerebbe dunque gli user-circulated content rispetto agli user generated content. Cfr. Henry Jenkins et al, Spreadable media. I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, 2013.
5. Non sorprende che in Cultura convergente non si faccia alcuna menzione della Scuola di Francoforte.
6. Cfr. in particolare il saggio “L'industria culturale. Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa” (pp. 126-180).
7. In originale, back-story, ovvero un insieme di eventi fittizi che costituiscono il retroscena di un racconto letterario, cinematografico, televisivo, videoludico etc. Si tratta di un espediente letterario che consiste nella creazione di una storia narrativa cronologicamente anteriore alla narrazione di interesse primario. Back-story è talvolta usato come sinonimo di prequel.
8. Ripresa dall’originale definizione di transmedia nell’articolo pubblicato su Technology Review, dove Jenkins afferma che:
Nell’applicazione ideale della narrazione transmediale, ciascun medium fa quello che sa fare meglio, per cui un racconto potrebbe essere introdotto in un film, espanso attraverso una serie televisiva, romanzi e fumetti mentre il suo mondo potrebbe essere esplorato attraverso i videogiochi. Ogni nuovo artefatto di questa franchise deve essere autosufficiente in modo da consentirne un consumo autonomo. (Jenkins, 2003)
9. Non a caso, il termine ARG è stato coniato nel 2001 per descrivere The Beast, la campagna di marketing creata per promuovere il film di Steven Spielberg A.I. Artificial Intelligence negli Stati Uniti.
10. Con il termine licensing (in italiano, licenza), si intende nel linguaggio dell’economia la cessione da parte di un autore o detentore di un diritto ad altro soggetto perché la possa utilizzare traendone dei benefici economici per mezzo della produzione su licenza. Il licenziante, ovvero colui che cede la licenza, ed il licenziatario, colui che gestisce la licenza, si accordano perché i benefici vengano remunerati attraverso un compenso (fee) sulle vendite che può essere fisso o variabile. Nel contesto del marketing, il licensing solitamente si riferisce a settori e contesti quali arte, spettacolo, celebrità, moda, musica, sport, marchi aziendali ed editoria. Concludendo, la licenza è un’attività di marketing attraverso la quale chi detiene un diritto con riferimento alla licenza lo cede ad un altro soggetto dietro pagamento di un compenso unico o percentuale (royalty) nel rispetto di alcune regole definite nel contratto di licensing.
11. Che un numero ristretto di fans abbia esplorato in profondità un universo narrativo che comprende anche altri artefatti culturali è fuori discussione, ma che tale fenomeno sia unico, originale e innovativo al punto da legittimare la definizione di un nuovo termine - transmedia - è discutibile. Inoltre, l’idea che il transmedia sia diventata la modalità di fruizione normativa degli artefatti culturali nel ventunesimo secolo è empiricamente falso.
12. Per un’analisi approfondita del concetto di partecipazione nell’era digitale, cfr. Darin Barney, Gabriella Coleman, Christine Ross, Jonathan Sterne, e Tamar Tembeck (A cura di), The Participatory Condition in the Digital Age, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2016.
13. Jenkins ha risposto a queste critiche nel 2013 sulla medesima pubblicazione accademica, ammettendo che alcune osservazioni, in particolare alle accuse di “ottimismo eccessivo” hanno un fondamento.
14. Cfr. Henry Jenkins, Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale, Milano, Apogeo Editore, 2008.
15. Si veda, a questo proposito, il concetto di playbour che indica quelle prassi lavorative non remunerate che gli appassionati intraprendono deliberatamente e spontaneamente, successivamente cooptate e assorbite dall’industria. Il neologismo è stato coniato da Julian Kücklich nel saggio “Precarious Playbour: Modders and the Digital Games Industry” pubblicato su Fibreculture Journal nel 2005. Il concetto è stato successivamente sviluppato – tra gli altri – da Julian Dibbell e Mark Andrejevic.
16. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso delle produzioni videoludiche basati sulle proprietà intellettuali di grandi realtà industriali come Marvel Comics o D.C. Comics, che detengono le licenze di personaggi superomistici come Batman, Superman, Spiderman etc. Per ulteriori informazioni, cfr. Stephen Kline e Nick Dyer-Witheford, Digital Play: The Interaction of Technology, Culture, and Marketing, McGill-Queen’s University Press, Montreal, 2003 e Stephen Kline, Out of the Garden: Toys and Children's Culture in the Age of TV Marketing, Verso, London, 1995.
17. Fondata da Michele di Pisa nel 1977, Systems Editoriale è tra le prime case editrici italiane di software e di pubblicazioni specializzate in informatica. Grazie a pubblicazioni come Computer (la prima rivista informatica italiana diffusa nelle edicole), Personal Computer e, dal 1982, Commodore Computer Club, nei primi anni Ottanta, è stata a lungo un un punto di riferimento per gli appassionati. Come scrive Riccardo Gianola nel Dizionario della New Economy (2000), Commodore Computer Club “Ha avuto il merito di formare la prima generazione di programmatori italiani” (p. 45). L’editore perseguiva infatti un doppio ruolo (informazione e formazione alla programmazione), affiancando l’attività editoriale alla distribuzione di videogiochi amatoriali (attraverso la testata Software Club), realizzati dai lettori, per mezzo di semplici programmi nonché programmi di utilità, come software gestionali e il popolare applicazione di emulazione dei sistemi MS-DOS per Commodore 64. Ribattezzata Systems, l’azienda è tuttora attiva nell’ambito della pubblicazione di software e materiali CAD. Per informazioni, cfr. http://www.systems.it
18. Spesso tradotto in italiano come avventura testuale, l’espressione interactive fiction indica quei programmi per computer che simulano un ambiente elettronico con il quale gli utenti possono interagire per mezzo di semplici istruzioni testuali. Il giocatore si serve di un’interfaccia a riga di comando per interagire con una situazione di gioco anch’essa descritta in forma testuale. In genere, i comandi consistono in frasi come “prendi chiave” o “vai ovest”, che vengono interpretate da un parser, uno strumento software di riconoscimento di una grammatica e alla conseguente costruzione di un albero sintattico. Sono talvolta presenti immagini in computer grafica per descrivere una situazione – come nel caso di Dylan Dog: Le notti della luna piena – ma si tratta di semplici illustrazioni: come le figure all’interno di un libro, non sono interattive. Questo genere ha conosciuto la massima popolarità negli anni Ottanta su home computer. Per ulteriori informazioni, cfr. L’eccellente studio di Nick Montfort, Twisty Little Passages: An Approach to Interactive Fiction pubblicato nel 2005 da MIT Press.
19. Questo gioco segue il canovaccio definito da Systems Editoriale con il primo adattamento di un fumetto Bonelli: Zagor, che risale al 1987. Intitolato La fortezza di Smirnoff, è un’avventura testuale per Commodore 64 programmata da Marco Corazza e allegata alla rivista Commodore Computer Club. Si tratta dell’adattamento dell’omonimo albo di Alfredo Castelli e Franco Donatelli (#151) pubblicato il 14 febbraio 1978. L’utente guida Zagor all’interno di un labirinto, digitando comandi semplici per mezzo della tastiera. Il gioco era accompagnato da un manuale con la copertina illustrata da Gallieno Ferri.
20. Con il termine “rimediazione”, coniato dai ricercatori americani Richard Grusin e David Jay Bolter sul finire degli anni Novanta, s’intende l’incorporazione di un medium in un altro. Cfr. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini & Associati, Milano, 2003.
21. Sviluppato dalla software house britannica Sensible Software e pubblicato nel 1987 da Outlaw/Palace Software, lo Shoot'Em-Up Construction Kit (SEUCK) è un programma che permette la creazione di semplici videogiochi action o sparatutto per Commodore 64, Amiga ed Atari ST. Systems Editoriale ha pubblicato numerosi giochi sviluppati con questo software, tra cui diverse produzioni del game designer Emiliano Sciarra.
22. La versione Amiga è stata programmata da Andrea Alleva, Giuseppe Alleva e Stefano Balzani, mentre la grafica è a cura di Riccardo Cangini, Michele Sanguinetti, Stefano Forieri. La colonna sonora è di Gianluca Gaiba, Cristiano Cieri. Il testing è di Andrea Bradamanti e Marco Alleva. La versione per Commodore 64 è stata programmata da Nicola Ferioli, il cui portfolio include I Play 3D Soccer (1991), una simulazione di calcio tridimensionale, nonché I Play 3D Football Champ (1992). La componente grafica è stata invece curata da Ivan Venturi, che ha all’attivo, sempre per Simulmondo, titoli come Bocce (1987), Simulgolf (1988), I Play 3D Soccer (1991), I Play 3D Tennis (1992) e altri ancora.
23. Solo per la versione Amiga e PC. Nella versione per Commodore 64 invece gli indizi sono sparpagliati nell’area di gioco.
24. Privi, cioè, di quegli effetti di scorrimento automatico (scrolling) divenuti pressoché standard sin dagli anni Ottanta.
25. In un’altra intervista, rilasciata a Robert Grechi su Retrogaming Planet, Carlà ha citato 200.000 copie vendute in Europa (“Sicuramente nessuno aveva mai venduto in Europa 200.000 copie di un game come facemmo noi con Dylan Dog”). Non ho potuto verificare la veridicità di queste cifre.
26. Si noti che Simulmondo aveva sviluppato un videogioco basato su Martin Mystère che non venne tuttavia pubblicato perché, secondo Carlà “[F]u messo in cantiere quando la voga era ormai finita... e quindi non avrebbe avuto successo…” (in Gentili, 1997). Si dovrà attendere il 2005 per vedere un videogioco tratto dalle avventure del celebre archeologo: Martin Mystère - Operazione Dorian Gray, ideato da Riccardo Cangini e prodotto per piattaforme Windows dalla genovese Artematica. Anche in questo caso, si tratta di un adattamento di una storia esistente e, nello specifico I giorni dell'incubo, pubblicata sui numeri 62, 63 e 64 della serie regolare (1987) e disegnata da Giovanni Freghieri su testi di Castelli. Il gioco include un cameo di Dylan Dog: il suo biglietto da visita, infatti, è visibile sul cruscotto dell’automobile di Martin.
27. Nell’accezione francofortese di industria culturale.
28. Fondata a San Rafael, in California, nel 2004, Telltale Games, l’azienda annovera diversi ex-dipendenti di LucasArts, la casa di produzione fondata da George Lucas. Specializzata nella produzione di avventure grafiche ad episodi, distribuite attraverso internet, l’azienda ha un portfolio che include adattamenti videoludici di fumetti (per es. Fables e Batman) e serie TV come Il trono di spade. Oggi ha circa 240 dipendenti.
29. La terza stagione, sottotitolata A New Frontier, è stata introdotta il 20 dicembre 2016 ed è ambientata quattro anni dopo la prima. Interpretata nuovamente da Clementine, la serie introduce un nuovo personaggio giocabile, Javier. Si attende inoltre lo spin-off The Walking Dead: Michonne, una mini-serie videoludica di tre episodi e nel 2017 debutterà anche l’arcade game The Walking Dead sviluppato da Raw Thrills e Play Mechanix. Cfr. http://arcadeheroes.com/2016/11/08/walking-dead-arcade-officially-unveiled
30. Si noti che nel 2013, Terminal Reality ha sviluppato un videogioco intitolato The Walking Dead: Survival Instinct interpretato da due personaggi della serie televisiva, Daryl e Merle Dixon. Ambientato qualche giorno prima degli eventi narrati nel telefilm, The Walking Dead: Survival Instinct, a tutti gli effetti, un prequel videoludico della serie TV. A differenza di The Walking Dead di Telltale Games, ha tuttavia riscosso uno scarso successo critico e commerciale.
31. Di cui emula numerose marche estetiche, come un breve videoclip che riassume gli eventi del precedente episodio, “(Previously On”) all’inizio o le scritte “To Be Continued” e “Next Time” al termine di ogni “capitolo”. Cfr. Sulimma (2015).
32. L'introduzione del videogioco di The Walking Dead ha coinciso con la conclusione della seconda serie televisiva, a ratificare un’evidente continuità transmediale.
33. In un’intervista rilasciata a Ben Reeves (2012) su Game Informer, Robert Kirkman ha chiarito molti dettagli della collaborazione: è stato lo studio Telltale a proporgli una serie videoludica ispirata a The Walking Dead “Caratterizzata da una storia interattiva dettata dalle scelte del giocatore”. Tali videogiochi avrebbero enfatizzato “Le conseguenze profonde di tali decisioni piuttosto che i combattimenti con gli zombie o la semplice raccolta di munizioni”. Kirkman, che aveva una certa familiarità con le produzioni ludiche di Telltale, entrò a far parte del progetto, assumendo il ruolo di supervisore durante le fasi di sviluppo e assicurandosi che le proposte del game developer fossero coerenti con l’universo di The Walking Dead. In una successiva intervista rilasciata a Nathan Grayson (2013) e pubblicata sul sito Rock, Paper, Shotgun, l’amministratore delegato di Telltale Dan Connors ha dichiarato che lavorare con Kirkman ha facilitato lo sviluppo di una trama originale e la creazione di nuovi personaggi rispetto a quelli già presenti nel fumetto. Una delle poche richieste di Kirkman fu proprio quella di evitare riferimenti al fumetto e/o di utilizzare il protagonista, Rick Grimes, già coinvolto nella serie TV.
34. Che vengono mantenute nel corso dei vari episodi e delle due stagioni.
35. Cfr. Charlie Ecenbarger, “Comic Books, Video Games, and Transmedia Storytelling: A Case Study of The Walking Dead”, pubblicato su International Journal of Gaming and Computer-Mediated Simulations, 2016, vol. 8, no. 2, pp. 34-42.
36. Il concetto di intertestualità è stato coniato nel contesto degli studi letterari ed illustra le relazioni che legano un testo ad altri. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti, Einaudi, Torino, 1997.
37. In un intervento preparato per la conferenza Media Mutations 6 presso l’università di Bologna intitolato “Weak narrativity in transmedia: storytelling in The Walking Dead” (2014), Maria Engberg e Jay David Bolter hanno fatto notare che il consumo della serie televisiva o del videogioco non richiede alcuna conoscenza del fumetto, il che dimostra che la nozione di narrazione transmediale di Jenkins (2007) concepita come “sviluppo di un’unica narrazione attraverso differenti media” è intrinsecamente aporetica ed empiricamente fallace. La serie TV e il videogioco non sarebbero dunque complementari al fumetto, bensì alternativi. Per informazioni, cfr. http://www.mediamutations.org/tag/weak-narrativity-in-transmedia/ia/
38. Cfr. Benjamin Beil e Hanns Christian Schmidt ,“The World of The Walking Dead – Transmediality and Transmedial Intermediality”, 2015.
39. Per un’analisi del rapporto tra serialità e videogiochi, cfr. l’eccellente saggio di Shane Denson e Andreas Jahn-Sudmann, “Digital Seriality: On the Serial Aesthetics and Practice of Digital Games”, pubblicato su Eludamos. Journal for Computer Game Culture nel 2013.
40. Per un’analisi approfondita della serie videoludica, cfr. Maria Sulimma, “Did you shoot the girl in the street?” - On the Digital Seriality of The Walking Dead”, pubblicato su Eludamos. Journal for Computer Game Culture nel 2014.
41. In passato, Groucho ha interpretato una miniserie di albi allegati ad alcuni degli albi speciali di Dylan Dog in cui lui è il solo protagonista.
42. Cfr. http://rhizome.org/community/11973/
43. Vincitore di un premio Pulitzer, il volume di Caro è sfortunatamente inedito in Italia.
44. Cfr. https://radiatoryang.itch.io/goodauthority
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Questo saggio è una bozza non definitiva.
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