Una glitch di Cyberpunk 2077 (fonte: Gizmodo Australia)
Sotto molto aspetti, la debacle di Cyberpunk 2077 esemplifica gli aspetti peggiori della sottocultura videoludica e della correlata industria. Beninteso: non c’è nulla di particolarmente nuovo né di sorprendente. Tuttavia, gli ingredienti corrosivi di questo ennesimo fiasco offrono vari spunti di riflessione. In questo senso, Cyberpunk 2077 è una cartina di tornasole.
In primo luogo, andrebbe citata la violenza verbale e le molestie dei cosiddetti gamer che si sono accaniti – sorpresa! – contro Kallie Plagge, la giornalista di Gamespot, accusata di aver “punito” il videogioco di CD Projekt Red con un punteggio di 7 su 10 nella sua recensione. Sebbene il livello di abusi non abbia raggiunto i livelli allucinanti dell’attacco ad hominem contra Carolyn Petit nel 2013 per un 9 su 10 assegnato a Grand Theft Auto V – una vicenda che ho documentato nel volume Fenomenologia di Grand Theft Auto – questo episodio ratifica il medesimo pattern venefico, per cui lo "sciame" delegittima, attraverso insulti sessisti e misogini, una giornalista. All’indomani della pubblicazione della recensione, decine di youtuber hanno sfogato la propria furia attraverso una serie di video nei quali decostruiscono pedissequamente l’analisi impietosa di Plagge, smentellandone le critiche - dalla monotonia del mondo finzionale ideato dagli sviluppatori polacchi alla pervasività di glitch e malfunzionamenti, senza dimenticare la disconnessione tra le missioni secondarie e la “storia” principale. Il fatto che i “critici” di Plagge non abbiano avuto modo di testare il gioco prima di lanciare il j'accuse, non ha destato obiezioni. Una volta riscontrate le anomalie individuate dalla giornalista, le denunce di eccessiva severità hanno lasciato posto a lamentele non meno sguaiate per il medesimo giudizio, ora considerato “fin troppo benevolo” per un prodotto “rotto”. Del resto, come ha confermato il lungo episodio di Gamergate, la logica del gamer è irrazionale e post-fattuale: de facto, è assimilabile alla mala fede esoterico-misticheggiante dei seguaci di QAnon. Il complottismo come prassi epistemologica.
Un secondo aspetto sintomatico della profonda disfunzione dell’industria videoludica è l’atteggiamento ricattatorio e intimidatorio del publisher, CD Projekt Red, che ha concesso solo pochi giorni ai giornalisti per recensire un prodotto colossale, minacciando una multa di ventisette mila dollari a coloro che avessero osato includere filmati di gameplay originali come accompagnamento alla recensione anziché limitarsi a mostrare i materiali audiovisivi forniti dall’azienda. Lo scorso novembre, CD Projekt Red ha richiesto ai giornalisti la firma di un contratto di non divulgazione (gli ormai pervasivi Non-disclosure agreements, NDA) per accedere a una copia del gioco. Ironicamente, nel database degli oggetti di Cyberpunk 2077, gli accordi di non divulgazione sono definiti “spazzatura... un documento standard che proibisce molto e offre poco o nulla in cambio”. Si noti che questo modus operandi – un vero e proprio ricatto che la maggior parte dei giornalisti accetta senza obiettare – è tutt’altro che insolito un comparto industriale che, sin dalle origini, considera la stampa specializzata una mera estensione dei reparti marketing aziendali, ergo priva di reale autonomia e imparzialità. Non solo i giornalisti hanno avuto poco meno di tre giorni per esaminare un videogioco enorme prima della sua introduzione sul mercato, il dieci dicembre, ma hanno avuto accesso alla sola edizione per PC, mentre le versioni penalizzate da malfunzionamenti e difetti di ogni tipo sono state deliberatamente omesse. Come ha sottolineato Keza MacDonald sul Guardian,
I primi recensori non hanno identificato i problemi tecnici del gioco perché CD Projekt ha concesso loro solo la versione più stabile per PC prima della pubblicazione – e previa stipulazione di un rigoroso accordo di non divulgazione che vietava di mostrare qualsiasi filmato effettivo. Questo tentativo di controllare il messaggio ha generato un forte impatto negativo, dando l'impressione che lo sviluppatore stesse cercando di occultare i problemi del gioco, il he ha finito per infuriare i giocatori.
Com’è facile intuire anche per chi ha scarsa dimestichezza con i videogiochi, l'episodio presenta aspetti tragicomici.
Il ricorrente cortocircuito tra i gamer, le aziende che producono videogame e il giornalismo specializzato – nonché mainstream, come spiegano Tim Vos e Gregory Perreault in Game over – è stato esacerbato dalla natura di un prodotto atteso da quasi un decennio (il primo annuncio risale al 2012) e celebrato anzitempo dalla stampa specializzata come un "capolavoro": l’hype che ne ha accompagnato l’interminabile sviluppo è caratteristico di uno dei comparti meno professionali tra le industrie creative contemporanee. Una possente campagna di marketing ha occultato gli evidenti limiti di un prodotto sotto molti aspetti anacronistico – non solo e non tanto tecnicamente – quanto sul piano ludico, narrativo e ideologico. Aldilà della retorica transfobica e dell’Orientalismo così diffuso in numerose produzioni occidentali, Cyberpunk 2077 non è che il sottoprodotto di una fase storica ormai al tramonto (nota 1). Sta ai videogiochi come le mega-produzioni hollywoodiane e superomistiche al cinema: si rivolge a un pubblico – oltre otto milioni di “utenti” – disposto a coprire interamente le spese di produzione e di marketing – quantificate in circa cento milioni di dollari – per esercitare sullo schermo, in forma del tutto vicaria, fantasie di potenza e autorità in un’era segnata dal fallimento generalizzato, tra emergenze climatiche sempre più drammatiche sistematicamente ignorate dai governi e dalle multinazionali, che anzi contribuiscono a peggiorare la situazione, a opportunità di lavoro sempre più sporadiche, dall’inquinamento pervasivo fino al capitalismo della sorveglianza – a cui i videogiochi sono stati sotto molti aspetti dei pionieri, come spiega Ulysses Pascal in Game Over. In breve, non è necessario giocare a un prodotto difettoso – un prodotto che raggiunge livelli di quasi totale ingiocabilità su PlayStation 4 e Xbox One – come Cyberpunk 2077 per rendersi conto che ci troviamo in quella distopia descritta egregiamente dagli autori che hanno trasformato un’espressione d’avanguardia – il cyberpunk, appunto – nel genere letterario che meglio ha colto la zeitgeist: William Gibson e Bruce Sterling su tutti. Su WIRED, Adrienne So ha definito Cyberpunk 2077 un "gioco disumano". In realtà, sarebbe più corretto definirlo postumano, nel senso che non abbisogna di fruitori in carne e ossa. Potrebbe essere benissimo "giocato" da un bot e consumato in forma interpassiva su Twitch dal meatware. Preso atto delle intrinseche contraddizioni, la "critica" cheCyberpunk 2077 pretende di muovere all'indirizzo dell'ideologia capitalista, un leit motiv del genere letterario di riferimento, è risibile.
Cyberpunk 2077 esemplifica la tendenza, sempre più diffusa, a commercializzare prodotti incompleti, malfunzionanti, parziali, difettosi, che richiedono aggiornamenti colossali al day one. Come è emerso durante la discussione con Marco Pagani di RadioDue (Svizzera Italiana), il videogioco è riconducibile al software culturale/cultura come software (Lev Manovich, 2011) e dunque al work in progress permanente, in stato beta (in tutti i sensi). Ciò non costituisce tanto un trend, quando uno standard: si tratta di sfruttare gli utenti per esternalizzare la pratica essenziale (e altresì costosa) del beta testing. De facto, al giocatore viene chiesto di investire risorse temporali e cognitive per riparare il videogioco che ha acquistato: non solo tale lavoro - tedioso e frustrante - non è retribuito, ma addirittura, deve pagare per questa "opportunità". Si potrebbe affermare che videogiocare corrisponde a una lunga sequela di internship non retribuite (o meglio, di stage a pagamento, una formula ormai "normalizzata"). È il destino degli early adopters, che ostentano il proprio capitale ludico sopportando in modo quasi masochistico ogni forma di sopruso, lo stesso masochismo delle masse adoranti nei confronti delle star del cinema descritto da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell'Illuminismo. First world problems, senza dubbio, ma nondimeno rilevanti perché attestano tutti i limiti di quella "cultura della partecipazione" tanto celebrata da teorici americani come Henry Jenkins in testi altamente problematici come Fan, Blogger e videogamers (2016). Gli esempi non mancano, dalla debacle di No Man’s Sky nel 2016 all'iniziale flop di GTA Online nel 2015, per tacere del disastro di un altro titolo cyberpunk, Fallout 76, nel 2018. Poche altre industrie creative si permetterebbero di trattare i consumatori in modo così irrispettoso: è il bello del "libero mercato". Aldilà della tanto celebrata possenza economica, quella videoludica resta un'industria insieme immatura e avanzata (nel senso di Tardo Capitalismo) (nota 2). Sono parimenti puerili, ma tristemente prevedibili, le minacce di morte indirizzate agli sviluppatori da parte dei gamer per i continui ritardi accumulati: il fatto che il designer Andrzej Zawadzki di CD Projekt Red abbia dovuto rivolgersi direttamente ai gamer su Twitter pregandoli di riconoscere che “gli sviluppatori sono esseri umani” la dice lunga sull'insostenibile livello di tossicità di questa sottocultura:
I want to address one thing in regards of the @CyberpunkGame delay.
I understand you're feeling angry, disappointed and want to voice your opinion about it.
However, sending death threats to the developers is absolutely unacceptable and just wrong. We are people, just like you.
— Andrzej Zawadzki (@ZawAndy) October 27, 2020
Ultimo, ma non meno importante, questa vicenda porta ancora una volta in primo piano l'assurdità delle dinamiche lavorative di un’industria che impone agli sviluppatori ritmi allucinanti, obiettivi irrealistici, team di dimensioni sempre più elefantiaci (oltre cinquecento, in questo caso), bonus legati a performance di punteggio puramente quantitative (e.g. giudizi aggregati superiori al 90% su Metacritic, come ha fatto notare Jason Schreier su Bloomberg). C’è una differenza sostanziale tra giocare a lavorare – l’attività privilegiata dei NEET, il cui numero destinato a crescere per via della diffusione dell’automazione nei prossimi cinque anni e dell'ennesima recessione economica – e lavorare ai videogiochi.
Ma in entrambi i casi, il risultato finale lascia spesso a desiderare.
Matteo Bittanti
Note
- Cyberpunk 2077 rappresenta il passato: per capire l'immaginario prossimo venturo è più utile cimentarsi con i lavori di Lawrence Lek.
- Per ulteriori dettagli, cfr. il lungo resoconto di Mike Isaac e Kellen Browning per il New York Times.