L'autore delle immagini di copertina è Mauro Ceolin, uno degli artisti italiani più attenti al ruolo estetico, sociale e culturale del videogioco. Lecovers fanno parte della serie GamePeople02, dedicata agli autori che hanno fatto la storia del computer game. Una galleria di numi tutelari del videogame: questo è lo spunto creativo dell'opera di Mauro Ceolin, realizzata in Flash per poterla espandere su grandi formati da billboard pubblicitari senza alcuna perdita di definizione. La grafica vettoriale usata da Ceolin è onnivora e filtra immagini "pescate" in quel mare magnum che è la rete, per rielaborarle secondo un gusto "uber-flat" che è al tempo stesso personale e pervasivo. Dalla penna ottica nascono in questo modo stampe digitali, disegni e acrilici su tela e ritratti dei creatori di mondi videoludici.
SolidLandscapes: un salto nell’iper-spazio
Matteo Bittanti (2004)
Le escursioni virtuali di Mauro Ceolin si fanno sempre più audaci e perigliose. La serie SolidLandsapes conferma quanto andavamo sospettando da tempo: gli esseri umani stanno traslocando, in massa, negli spazi videoludici. E' un vero e proprio esodo, motivato, in primo luogo, dal collasso ecologico degli spazi urbani contemporanei, dalle nuove e vecchie minacce all'quilibrio precario della polis, ma soprattutto dall'anacronismo strutturale della città di cemento, acciaio e smog.
Richiamando l'attenzione dello spettatore sui luoghi interattivi dei videogame, Ceolin ne ribadisce la loro consistenza ontologica e topografica. Al progressivo smaterializzarsi degli spazi della città reali, sempre più invivibili e post-umane perché apocalittiche, fa da contro altare l'affermazione di nuovi luoghi di aggregazione sociale, le città invisibili della rete. L'agorà tradizionale, altamente mercificata e dunque svuotata di senso, si è trasferita nella dimensione virtuale. Mauro Ceolin abbozza una prima mappatura degli spazi videoludici: SolidLandscapes rappresenta una vera e propria cartina di tornasole delle trasformazioni techno-sociali che stiamo vivendo.
Specie di spazi
Gli spazi videoludici sono, per definizione, transeunti. Luoghi configurabili e attraversabili a piacimento. In questo, non sono troppo diversi dagli spazi reali. Come ha scritto Doreen Massey descrivendo le azioni compiute quotidianamente per raggiungere il proprio luogo di lavoro, (2000: 225) "Lo spazio è una configurazione [...] di una molteplicità di traiettorie". Nell'attraversare questo spazio ci imbattiamo in persone, luoghi e idee.
Gli spazi di SolidLandscapes, tuttavia, sono apparentemente vuoti. In modo provocatorio, Ceolin ha rimosso i personaggi e gli avatar che li popolano. Ha cancellato le icone dei videogames e gli NPC "non playing characters" che ivi transitano. Ne consegue che i paesaggi solidi ricordano le città desolate del cinema apocalittico: da 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra a 28 giorni dopo di Danny Boyle. Ma non è tutto. Così reinterpretati, gli spazi dei videogiochi perdono ogni originale connotazione positiva o negativa, smarriscono le intrinseche turbolenze, frizioni e i conflitti. Senza Tommy Vercetti che brandisce una mazza, Vice City appare quasi ospitale. Il cavalcavia di Tony Hawk Underground, con un improbabile WarWash, non ha nulla del ribellismo da MTV del gioco originale. Il golfscape, a sua volta, evoca paesaggi pastorali, mentre il flightscape oscilla tra Mondrian e l'11 settembre. Deprivati dei fastidiosi personaggi kawaii, gli spazi suburbani di Kirby rimandano all'estetica delle brochure promozionali, mentre le città virtuali di SimCity rimandano alla città ideale (1470) di Piero della Fransceca (o di Luciano Laurana a dir si voglia). L'isometria di Wright, perfettamente ripresa da Ceolin, è un palese omaggio alle soluzioni prospettiche messe a punto dal pittore italiano. Nell'opera originale del 1470 sono raffigurate strade rettilinee che si intersecano perpendicolarmente e un monumentale edificio a pianta centrale. In SimCity la visuale "a volo d'uccello". Ma tanto la SimCity di Ceolin quanto la città ideale di Della Francesca/Laurana sono sgombre e vacue.
SolidLandscapes riproduce e insieme ridefinisce spazi noti a milioni di cittadini virtuali. Spazi solidi, ma non stolidi, contrariamente a una certa retorica che denigra il videogame per partito preso. Ceolin sta de facto architettando una nuova topografia, cognitiva e ludica insieme. Un progetto ambizioso, propedeutico all'avvento di una nuova geografia che accorpa le metropoli di Will Wright alle civiltà di Sid Meier, i regni di Shigeru Miyamoto all'ubano troppo urbano dei ragazzi terribili di RockStar Games.
Nell'enfatizzare la dimensione spaziale del videogame, Ceolin è perfettamente coerente con studiosi come Henry Jenkins, per i quali il gioco digitale é innanzitutto, una forma di narrativa architett(r)onica. Il videogame si serve degli spazi simulati per costruire storie. Come tale, rappresenta una forma di narrazione radicalmente differente rispetto a quelle che lo hanno preceduto. Lefebvre, Sorkin o Augé hanno enfatizzato la natura monca e incompleta degli spazi attraversabili: Lefebvre (1991) li definisce "astratti", Sorkin (1992) "geografici", Augé (1995) "non-luoghi". Gli spazi dei videogiochi, pur essendo astratti in quanto simulati, per essendo a-geografici perché virtuali, rivestono comunque un'importanza cruciale nell'immaginario contemporaneo. Sono spazi noti e conosciuti, più reali di molti spazi reali. In questo senso, potremmo definirli degli iper-luoghi.
Gli spazi dei videogiochi non sono mai statici. Non sono un dato di fatto, ma un processo in fieri, un flusso continuo. Il videogioco si congela solo nella pausa e nello screenshot, ovvero nella schermata. Parafrasando Godard, potremmo dire che se il videogioco è verità a 30/60 frames al secondo, lo screenshot è verità a un frame al secondo. Le screenshot c'est ne past le jeux video. Ridefinendo il concetto stesso di screenshot, Ceolin ridisegna l'mmagine elettronica, elevandola a paesaggio. Paesaggio solido, precisa Ceolin. Un ossimoro, se vogliamo. Il paesaggio è reale e simulato, non è mai solido né statico. Qui solido, tuttavia, si riferisce alla natura poligonale e geometrica della realtà videoludica. Gli spazi del game sono costruiti con la squadra e il righello. Sono spazi ordinati, a differenza di quelli reali, caotici, sporchi. Spazi solidi vs. spazi sordidi.
Gli spazi dei videogiochi, specie quelli degli MMO - giochi online multiplayer ambientati in mondi persistenti, che risiedono su server e dunque (r)esistono anche quando il singolo giocatore spegne la macchina ludica - sono ospitali e inospitali come quelli reali. Come questi ultimi, offrono un senso di appartenenza. Io abito a Britannia e tu? Io risiedo nella città degli eroi. Le relazioni interpersonali che si sviluppano nei mondi dei bit non sono meno fragili o profonde di quelle che costruiamo o distruggiamo nel mondo degli atomi.
Dai non-luoghi agli iper-luoghi
Com'é noto, la nozione di "non-luogo" è stata coniata dall'antropologo francese Marc Augé. Nell'analisi antropologica del vicino, Augé sottolinea la necessità di investigare i luoghi solo apparentemente comuni dello spazio quotidiano. Dopo aver attraversato la città in metropolitana (1986), Augé traccia una mappatura degli spazi dell'era sur-moderna che contraddistingue le attuali società occidentali. La sur-modernità afferma Augè è caratterizzata dalla coesistenza di due tipi di luoghi. Accanto a quelli tradizionali, si fanno strada i cosiddetti non-luoghi (1992), spazi della transizione e della transazione, privi di storia e tradizione, marcati dalla moltitudine anonima e generica. Augé cita gli aeroporti, i centri commerciali, le infrastrutture per il trasporto veloce (autostradale, stazioni, aereoporti), i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei), i parchi a tema, gli hotel (specialmente i motel) e allude anche agli spazi virtuali.
I non-luoghi, dice Augé sono spazi di circolazione, comunicazione e consumo, in cui la solitudine coesiste "senza la possibilità di creare legami sociali o persino costruire delle emozioni sociali". Sono "spazi dell'anonimato che diventano ogni giorno più numerosi, frequentati da individui simili tra loro, ma soli." Detto altrimenti, pur incontrando altre soggettività gli utilizzatori (utenti) dei non-luoghi sono incapaci di costruire relazioni solide. Il soggetto si riduce a interagire con gli spazi e con gli ambienti che incontra attraverso la mediazione delle parole o del testo" (Augé 1995: 94). Il non-luogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso più comune del termine. Schermi, segnali e cartelli svolgono la funzione di mediare e facilitare le relazioni del soggetto con l'ambiente circostante "con i suoi tempi, spazi e personaggi creando un senso di provvisoria e precaria identità" (1995: 94). Queste interfacce producono "l'uomo medio", l'utilizzatore dei non-luoghi" (1995: 100). All'anonimato del non-luogo, si accede, paradossalmente, solo fornendo una prova della propria identit? passaporto, carta di identità. I non-luoghi sono gli spazi dell'anomia, dell'alienazione e della solitudine.
Gli spazi videoludici presentano caratteristiche simili a quelle dei non-luoghi, ma allo stesso tempo ne incarnano alcune dei luoghi propriamente detti. Sono spazi in cui si accede solo attraverso un'attestazione della propria esistenza tramite un avatar, un nickname, una selezione dal menu principale "sono spazi che richiedono una forma di transazione" (la'cquisto di power-up, oggetti e altro ancora per mezzo di crediti virtuali); sono spazi che articolano una serie di relazioni e incontri occasionali, ripetuti e ripetibili. Come i non-luoghi, gli iper-luoghi videoludici innescano una serie di performance riconducibili alle prassi del viaggio, del consumo, dello scambio. Giocare a un videogioco, in fondo, equivale a intraprendere unsplorazione, partecipare a una performance in un cronotopo virtuale.
I non-luoghi, scrive Augé sono prodotti da quelle che egli chiama "tre figure dell'eccesso". La prima consiste in un eccesso di eventi simultanei, che produce un'accelerazione dei flussi comunicativi e della storia aggravata dalla proliferazione di immagini di altri tempi e altri luoghi. La seconda consiste nell'"eccesso di spazio" che, paradossalmente, va a cozzare contro i limiti fisici dello spazio planetario (l'accelerazione dei flussi comunicativi riduce la dispersione spaziale, favorendone invece la compressione).
La terza coincide nell'eccesso di individualismo, per cui "Ogni individuo si apre alla presenza di altri, ma, nel contempo, si richiude su se stesso, riducendosi a mero testimone anziché attore della vita contemporanea". Nella surmodernità scrive Augé "grandi magazzini, distributori automatici e le carte di credito riannodano i gesti di un commercio muto, un mondo promesso all'individualità solitaria, al provvisorio e all'effimero".
Il videogioco esacerba questi eccessi, dato che, a livello fenomenologico e fisiologico, produce un bombardamento iconografico e aurale. Impone all'utente una reazione immediata e pronta, pena il game over. I videogiochi sono surmoderni in quanto cancellano il passato storico simulandolo continuamente. Nei videogiochi, come nei non-luoghi, regna l'attualità e l'urgenza del momento presente. I videogame, come i non-luoghi si percorrono e si misurano in unità di tempo. La memoria storica del videogame è una mera questione di estetica. Infine, il videogioco ridefinisce il concetto di spazio, creando nuovi strati di realtà che si aggiungono, sovrappongono o sostituiscono (nelle forme più patologiche di dipendenza) quelli im-mediati. In terzo luogo, il videogioco offre al soggetto la possibilitàdi vivere in forma vicaria delle esperienze altre dunque trasforma l'utente in attore, ma solo grazie alla mediazione dello schermo, inteso sia come interfaccia (monitor) che come protezione (scudo).
Tuttavia, il videogioco non può essere considerato un non-luogo nell'accezione di Augé dato che presenta caratteristiche analoghe a quelle che l'antropologo francese attribuisce ai luoghi tradizionali. I luoghi della tradizione, dice Augé sono localizzati e localizzabili, conosciuti e conoscibili senza possibilità di ambiguità, occupati e occupabili. Sono, soprattutto, "spazi in cui identità, relazioni e storie possono essere costruite" (Augé 1999: 8). Chi frequenta i luoghi videoludici riprodotti da Ceolin sa che i videogiochi possiedono tutti questi caratteri: la ripetizione intrinseca alla performance videoludica produce familiarità e conoscenza. La presenza di altri esseri umani, traslati in avatar, rende possibile la costruzione di "identiàtà, relazioni e storie". Mentre i non-luoghi producono "Una sorta di distacco tra l'individuo e lo spazio che attraversa" (ibidem), i luoghi prevedono un'inte(g)razione perfetta. Lo stesso vale, beninteso, per i videogiochi. Ma c'è di più: Per Augé il non-luogo, "non esiste mai in forma pura". I non-luoghi, infatti:
Si ricostituiscono nel loro darsi; le relazioni sono ripristinate e riavviate... I luoghi e i non-luoghi sono come polarità opposte: il primo non è mai completamente cancellato, il secondo mai totalmente completato. Sono come palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco dell'dentità e della relazione.
In altre parole, i luoghi e i non-luoghi sono sempre relazionali, contingenti e interagenti. Il videogame attiva dinamiche simili, con la differenza che la maggior parte degli iper-luoghi ludici sono costruiti a partire dalle immagini mediali di spazi reali: il campo di calcio di Fifa Soccer, ad esempio, è modellato sulle riprese televisive delle partite di calcio non sul calcio giocato in-quanto-tale, così come gli spazi dei giochi Nintendo evocano, anche a livello grafico, i luoghi dei cartoni animati a cui sono, del resto, geneticamente associati (il videogioco è prima di tutto, animazione). Gli spazi del videogioco sono liminali. Sono dappertutto e da nessuna parte. Sono spazi a tema, spazi di genere ma non generici. Fantastici ma non necessariamente fantasiosi. Ma sono spazi praticati, vissuti e animati. Sono i giocatori a trasformare uno sfondo in un paesaggio videoludico. Il game senza un player è privo di senso: eliminando i personaggi dagli scenari videoludici che riproduce, Ceolin ci chiede di attraversare lo schermo, di entrare nel quadro, di trasferirci nella dimensione ludica. Di metterci in gioco.
"Che significa guardare un paesaggio? Vuol dire sostanzialmente vedere certe cose e nasconderne altre" (Bernardi, 2002: 21). Ceolin ha colto perfettamente ll'ambiguità dello spazio videoludico, riproducendolo su tela, veicolo analogico e solo in apparenza tecnologicamente obsoleto. Ha mostrato delle cose e ne ha nascoste altro. Ma soprattutto, ha dimostrato che il terzo luogo di PlayStation esiste davvero.
SolidLandscapes ne è la prova.
Matteo Bittanti
Milano, ottobre 2004
Riferimenti bibliografici
Augé Marc (2002) In the Metro, Minneapolis: Univ of Minnesota Press.
Augé Marc (1999) An Anthropology for Contemporaneous Worlds, Stanford: Stanford University Press.
Augé Marc (1995) Non-Places: Introduction to an Anthropology of Supermodernity (Cultural Studies), New York: Verso.
Bernardi, Sandro (2002) Il paesaggio nel cinema italiano, Genova: Marsilio.
Lefebvre, Henry (1991) The Production of Space, New York: Blackwell Publishers.
Massey Doreen (2000) Cities Worlds, New York: Routledge.
Newman, Kim (2002) Apocalypse Movies, London: St. Martin's Press.
Olalquiaga, Celeste (1991) Megalopolis: Contemporary Cultural Sensibilities, Minneapolis: University of Minnesota Press.
Sorkin, Michael (1992) Variations on a Theme Park : The New American City and the End of Public Space, New York: Hill and Wang.
Virilio, Paul (1991) The Aesthetics of Disappearance, Cambridge: MA: Semiotext(e)/MIT Press.
I gamescapes uber-pop di Mauro Ceolin
Matteo Bittanti (2004)
Mauro Ceolin rappresenta la risposta italiana a Takashi Murakami e Julian Opie. L’autore milanese attinge a pieni mani dall’immaginario elettroludico per reinventare le idee di spazio, luogo e presenza. Ceolin usa Google – l’interfaccia della matrice – come canna da pesca per prelevare in quel mare magnum che è la rete immagini, suggestioni, visioni che poi finiscono per essere rielaborate secondo un gusto “flat” che è al tempo stesso personale e pervasivo. Dalla penna ottica di Ceolin nascono in questo modo stampe digitali, disegni e acrilici su tela e ritratti dei creatori di mondi videoludici, spazi virtuali, oggetti e rappresentazioni dell’immaginario contemporaneo. La ‘piattezza’ delle sue opere celebra la passione tutta postmoderna per le superfici di cui i personaggi dei videogame sono al tempo stesso causa ed effetto. C’è astrazione e rappresentazione insieme, analisi e sintesi, esattamente come in un game elettronico...
Se Andy Warhol ha dato un’anima alla pop art, Mauro Ceolin è riuscito ad attribuire un’aura all’estetica videoludica. E se Warhol ha glorificato Marylin Monroe, Ceolin ha trasformato Richard Garriott in una rock star, intuendo che i progettisti dei mondi virtuali sono le icone pop – ma anche idoli e feticci – della nostra cultura. Il paradosso, tuttavia, è che anche se i videogiochi sono parte integrante della mitologia del ventesimo e ventunesimo secolo, i loro creatori sono raffigurati da Ceolin come esseri comuni, ordinari, quasi banali. GamePeople (2002-2004) è una galleria di ritratti dei game designer che hanno contribuito a ridefinire il medium elettronico negli ultimi trent’anni. Gente comune che ha creato mondi fuori dal comune.
Per mezzo di una tecnologia ‘leggera’ come Flash, l’autore genera le repliche dei game designer: si tratta di un vero e proprio omaggio ai demiurghi delle illusioni interattive. Non c’è ironia e distacco, ma sincera ammirazione. Il suo stile è diretto e disarmante, spesso frainteso, a volte persino ingenuamente rifiutato. Il lavoro di Ceolin mira a cancellare digitalmente la complessità e l’entropia. Le sue immagini sono fresche e al tempo stesso “usurate”; i colori pastello, opachi e solidi, sono semplici ma intriganti. Ceolin rifiuta l’illusione della profondità e della prospettiva. Non troviamo strati sovrapposti: la realtà è un piano a due dimensioni. L’autore fonde e confonde materiale e immateriale, il mondo ‘reale’ e l’universo (in continua espansione) del game. La palette limitata, l’apparente semplicità dei soggetti, l’iconografia quasi fumettistica, rimanda ipertestualmente all’opera ritrattistica di Alex Katz. Ma laddove il pittore americano privilegiava soggetti a lui fin troppo vicini – sua moglie Ada, il figlio Vincent, e pochi amici – Ceolin ha scelto i catalizzatori delle fantasie contemporanee. In altre parole, Ceolin ci parla del mondo attraverso i creatori di mondi (il motto di Richard Garriott, fondatore di Origin, è “we create worlds”). In questo senso, Ceolin ci spinge a interrogarci sul ruolo del progettista nell’era dei free download e del peer-to-peer, dei mod e dei videogiochi (ri)creati interamente dai fans. Nei suoi ritratti, spesso i creatori di giochi e i personaggi occupano il medesimo piano di (iper)realtà. Wright, un Gulliver post-moderno, tiene un Sim nel palmo della mano (“Will Wright”, 2002). In altri casi, il game designer è paradossalmente più minuscolo della creatura che ha disegnato. Il creatore (“Fumito Ueda”, 2003) e il suo pupazzo elettronico, Ico, sono giustapposti, affiancati: l’uno si riflette nell’altro. Shigeru Miyamoto disegna Super Mario sulla carta ma non si accorge che la sua creatura lo sovrasta e lo soverchia. Miyamoto – sembra dirci Ceolin – esiste solamente in virtù di Mario e non viceversa. Lo sguardo è reciproco, ma l’imperativo della scopofilia finisce per generare un ambiguo (video)gioco di rimandi. Shinji Mikami, creatore del gore videoludico, gesticola nervosamente, il movimento della sua mano fissato per sempre in aria. I cromatismi limitati di Ceolin – il cui progetto estetico si rifà ai colori dell’RGB (red, green, blue) acquista un senso ancora più straniante grazie al rosa pepto-bismol, al bianco asettico e ai fondali verdi. Non c’è da sorprendersi: il verde è tradizionalmente associato alla dimensione ludica. Si pensi ai campi da calcio, ai tavoli da biliardo e da poker. È anche il ‘colore del soldi’ – del resto, l’industria videoludica è l’unico settore dell’elettronica di consumo in crescita, oggi. l’industria dei videogames fattura più del cinema.
Le opere di Ceolin omaggiano anche il fenomeno del paint-by-numbers, i dipinti fai-da-te che impazzavano negli Stati Uniti negli anni ’50 e ‘60. Una volta derisi, oggi i dipinti fai-da-te sono un oggetto di collezionismo e rappresentano un interessante fenomeno di folk/pop art. Si potrebbe quasi intravedere un parallelismo tra questo tipo di prodotti di consumo mascherati da opere d’arte che davano ai consumatori l’illusione della creatività e la funzione sociale di alcuni videogames. Insomma, GamePeople è una simulazione di ritratti. Negli anni ’60, Roy Lichtenstein ha dato alle strips e ai comics una nuova collocazione: dalla carta alla tela. Ceolin fa qualcosa di simile, trasferendo i videogiochi su ‘altri’ schermi. Come Murakami, celebra la cultura pop anziché condannarla banalmente. Ceolin ha capito, in tempi non sospetti, che l’arte contemporanea non riveste il benché minimo significato per la stragrande maggioranza degli esseri umani. I videogiochi, al contrario, parlano una lingua globale e planetaria. PlayStation è il nuovo esperanto, Nintendo è la valuta mondiale. Portare in primo piano l’arte del videogioco e attribuirgli un nuovo senso sembra è l’imperativo di un autore che condivide con autori come Enrico Mitrovich una passione sincera per un medium a lungo ignorato dalla riflessione estetica.
Il tentativo di decodificare il senso ultimo dell’immagine videoludica giuda anche la nuova serie Solid Landscapes (2004) che evoca – ma al tempo stesso stravolge – gli spazi videoludici. Nata nel cinquecento la pittura di paesaggi, rappresentava elementi topografici o vedutistici del reale, avviando quel graduale processo che porto il paesaggio ad assumere piena autonomia e dignità tematica. Oggi stanno emergendo nuove prospettive coincidono con paesaggi/scenari a supporto ad attività videoludiche, il paesaggio poligonale. SolidLandscapes registra le peculiari fisionomie del paesaggio poligonale, surrogato di un reale a sua volta modellato sugli spazi del cinema, dei fumetti, della letteratura. Nella continuità della ricerca visiva sul paesaggio, RGBproject intraprende, con SolidLandscapes un’ulteriore riflessione sui corto-circuiti innescati dagli spazi del contemporaneo. Paesaggi, mondi a cui accedere, mondi da accendere e spegnere rientrano nel nostro immaginario di “esseri digitali”. Prospettive altre divenuti così familiari da costruire il nostro senso di realtà. I paesaggi solidi di Ceolin non sono non-luoghi bensì iper-luoghi. Luoghi iper-realistici, spazi dell’immaginario mediatico, figli dell’estetica della mappatura cognitiva invocata da Jameson, dimensioni abitabili pur nella loro apparente inaccessibilità. Spazi irriducibilmente altri, clamorosamente vacui pur essendo densi di significati.
Matteo Bittanti
Milano, febbraio 2004